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CHIASSODietro le sbarre si impara a resistere

02.05.24 - 06:30
Arrestata per aver mostrato le atrocità turche contro il popolo curdo, la giornalista Zehra Doğan racconta la determinazione di un popolo.
Imago
Dietro le sbarre si impara a resistere
Arrestata per aver mostrato le atrocità turche contro il popolo curdo, la giornalista Zehra Doğan racconta la determinazione di un popolo.
Doğan sarà ospite a ChiassoLetteraria sabato 4 maggio alle 16.15.

CHIASSO - I carri armati si trasformano in scorpioni, aprono enormi fauci e inghiottono un villaggio intero. Nusaybin, città della Turchia sudorientale situata ai confini con la Siria, si presenta così nel dipinto di Zehra Doğan, giornalista e artista curda, che ha denunciato le violenze delle forze di sicurezza nazionali di Erdogan contro i civili.

La storia personale di Zehra, ospite a ChiassoLetteraria sabato 4 maggio alle 16.15, si intreccia con la Storia (con la S maiuscola) di un popolo che lotta per uno Stato, una terra autonoma, che nessuno vuole riconoscere e nessuno concede. Una doppia dimensione racchiusa nella frase scelta dall’autrice per accogliere i visitatori sul suo portale web: “Non capisco perché ci mettano in prigione, quando ne usciamo più forti”. 

E la prigione Zehra l’ha sperimentata. Arrestata nel 2017, vi ha passato due anni, nove mesi e 22 giorni, un tempo interminabile che ha trasformato la vita della giornalista consegnando il suo destino alla resistenza curda. Quasi tre anni che hanno scolpito la sua personalità. La sua colpa? Aver raccontato le violenze e la repressione del popolo curdo. Un lavoro giornalistico etichettato come “propaganda terroristica” del regime. Zehra si trova ora in Germania dove ha chiesto asilo politico. In attesa della luce verde di Berlino, non potrà presenziare fisicamente al festival di Chiasso, ma si collegherà virtualmente.

Prima a Mardin, poi dietro le sbarre del centro femminile di Diyarkabir e infine nel carcere di massima sicurezza di Tarso, Zehra ha scoperto una vocazione. «Prima della prigione, non ero consapevole della forza che custodivo dentro di me. È emersa nella sofferenza e nelle difficoltà. Ho capito che la mia terra era stata occupata, che la mia patria era stata invasa, la mia identità negata. Mi sono resa conto che non posso accantonare i miei diritti e continuare a vivere come se nulla fosse. Non potevo guardare dall’altra parte».

ImagoLa protesta dell'artista britannico Banksy contro l'incarcerazione di Zehra Doğan a New York

In carcere ha trovato la forza per continuare a resistere, cosa è successo dietro le sbarre?
«Il carcere mi ha resa più cosciente della verità, è stata una palestra che ha amplificato le mie forze. Chi ha ordinato il mio arresto sperava che mi sarei pentita, che avrei rinnegato i miei valori. Ma è successo l’opposto. Sapevo di non aver commesso niente di sbagliato e questa convinzione mi ha aiutato a non arrendermi».

Non ha esitato a denunciare le atrocità che i soldati di Erdogan commettevano contro la popolazione curda. La sua è una missione: perché il testimone delle violenze deve svolgere un ruolo attivo?
«Non mi reputo una persona speciale. Faccio quello che la situazione mi ha imposto. Il contesto dove sono cresciuta ha costruito la mia personalità. Fin da quando ero bambina mi è stata negata la mia identità. La lotta contro l’oppressione è per me, ma anche per i miei compagni, qualcosa di naturale. Non possiamo restare con le mani in mano. Ci troviamo in un limbo: un paese che c’è e non c’è. La nostra terra è sempre stata occupata».

Perché le ambizioni del popolo curdo non vengono ascoltate?
«Non abbiamo mai potuto studiare a scuola usando la nostra lingua. I bambini che parlano curdo vengono picchiati dagli insegnanti. Il mondo non vuole vedere quello che succede in Turchia. Siamo soli, ma proprio questa solitudine è sempre stata una grande fonte di motivazione. Questa negazione ci spinge ad andare avanti. Quando la repressione si fa più intensa parallelamente anche la volontà di resistere e di opporsi cresce».

La sua arte è stata definita “propaganda terroristica”, perché il governo di Erdogan teme le sue opere?
«È una domanda che mi pongo spesso. Il mio obiettivo non è mai stata la propaganda. Durante la guerra, hanno distrutto e raso al suolo la mia città natale. Siamo rimasti sotto assedio per cinque mesi, durante i quali non potevamo neanche uscire di casa. I militari turchi hanno diffuso in rete la fotografia che ha ispirato il mio dipinto. Volevano vantarsi della loro “opera”. Volevano mostrare a tutti la ferocia di cui erano capaci. A partire da quell’immagine ho dipinto un quadro e così sono finita in prigione. Eppure mi sono limitata a copiare quello che già era stato fatto. Mi hanno accusata di propaganda terroristica. È un paradosso perché si tratta proprio dell’opposto». 

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Artista e giornalista, ha unito due passioni per amplificare il messaggio. Quali sono le emozioni che, fin dall’inizio ha voluto trasmettere?
«Sogno un mondo senza confini. Ovunque ci spostiamo siamo rinchiusi, intrappolati in limiti che determinano la nostra libertà. Nel Kurdistan ho sempre desiderato essere libera. Questi sentimenti hanno influenzato la mia arte e le mie convinzioni. L’arte è una lingua, cerco di esprimere le emozioni che sento. Mi sono interessata al tema dei confini perché dappertutto ci impediscono di muoverci, anche in Europa».

Limiti che creano disuguaglianze.
«Esatto, queste disuguaglianze sono presenti in ogni paese. Per esempio qui in Germania tanti rifugiati hanno chiesto l’asilo politico. Ma non tutti vengono trattati nello stesso modo. Gli ucraini sono considerati ospiti, mentre noi veniamo etichettati come migranti e rifugiati. È una differenza che mi sorprende. Siamo stati perseguitati, cacciati dalla nostra terra, non capisco perché questa disparità di trattamento».

ImagoLa protesta dell'artista britannico Banksy contro l'incarcerazione di Zehra Doğan a New York.

I materiali della sua arte sono legati ai temi che tratta. Come ha costruito e sviluppato quest'unione?
«Quando ho iniziato a esprimere i miei sentimenti e le mie emozioni attraverso l'arte, non ero pienamente consapevole di quello che stavo facendo. Mi trovavo in prigione ed ero costretta a usare un certo tipo di materiale, quello che riuscivo a reperire (pezzi di giornale, capelli, scarti destinati alla spazzatura, avanzi di cibo, la cenere delle sigarette). Quando si accorgevano di quello che facevo proibivano anche i pochi materiali che riuscivo a trovare. Non mi lasciavo scoraggiare, trovavo nuove alternative. Usavo il ciclo mestruale per colorare, costruivo le penne con i capelli delle mie compagne. Era una scelta dettata dalla necessità. Una volta uscita di prigione, ho scelto di continuare su questa strada. Questo linguaggio faceva ormai parte di me, non potevo tornare indietro. Ho sempre costruito la mia arte con ciò che trovavo».

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