La guerra in stallo, la neutralità elvetica e la campagna elettorale italiana. Ne abbiamo parlato con Dario Fabbri.
A più dei sei mesi dall'inizio della guerra in Ucraina, l'impressione è quella di essere giunti a un punto di stallo. È una situazione che pare muoversi al rallentatore, e che all'orizzonte, eccezion fatta per un difficile inverno, non lascia intravedere molto altro. Non una cessazione delle ostilità sul campo, ma neanche l'ombra di negoziati che possano indicarne la direzione. Siamo a uno stallo perché «entrambe le parti non sono soddisfatte dell'andamento della guerra finora», ci spiega Dario Fabbri, analista geopolitico e direttore della rivista Domino, che sarà ospite domenica di Endorfine Festival a Lugano e con cui abbiamo provato a tracciare una cornice di questo delicato momento storico.
Fabbri, perché Putin e Zelensky non si sono ancora seduti allo stesso tavolo?
«Dipende soprattutto dai russi. Gli ucraini hanno pochissima scelta, perché se smettessero di combattere dovrebbero cedere tutto o quasi il territorio richiesto dai russi. Il punto è che in questo momento Mosca è ancora convinta, a torto o a ragione, di poter ottenere di più sul campo di battaglia che non sul tavolo del negoziato. E anche Kiev è sicura che sedendosi al tavolo del negoziato adesso dovrebbe comunque lasciare alla Russia, salvo miracoli che oggi sono impensabili, tutto quello che si è presa. Quindi tre quarti del Donbass, la parte immediatamente a nord della Crimea, per non parlare della stessa Crimea che è lì da otto anni. I russi necessitano di trofei maggiori da presentare al proprio orgoglio e alla propria opinione pubblica. E gli ucraini, visti alcuni successi tattici ottenuti, anche se in realtà la guerra la stanno comunque perdendo, si dicono che, considerato lo stallo e gli armamenti occidentali ricevuti, se continuano a combattere possono riuscire a effettuare qualche controffensiva».
Ora si va verso l'inverno. Il freddo, l'assenza di elettricità e di acqua. Questo potrebbe dare nuovo slancio a Mosca sul campo?
«Sì, potrebbe. Diciamo che l'invasore tende, finché può, a strangolare l'economia e le condizioni di vita del paese aggredito. La leva energetica, e in generale quella degli idrocarburi, oltre alle condizioni climatiche, saranno quindi utilizzate dai russi molto più che dagli ucraini. Ma anche questo dovrebbe in ogni caso condurre a una resa da parte di Kiev, o quantomeno a un'accettazione dei termini di Mosca. In caso contrario la guerra proseguirà. Come detto, il campo di battaglia resta ancora più soddisfacente di un negoziato».
Sul fronte dello scontro energetico, con l'Occidente, Mosca sembra invece molto più vivace...
«Su questo lato i russi dispongono, nell'immediato, di molte più frecce. Qui bisogna scindere i due piani temporali. Nell'immediato noi, come europei occidentali, non possiamo fare quasi nulla. Diversificare nel giro di pochi mesi una tale dipendenza energetica è impossibile. Anche con il massimo dell'impegno. Non ci si riesce e, per essere molto crudi, si finisce per morire di freddo. Quindi nell'immediato la Russia ha una leva molto potente nei confronti dell'Europa occidentale. Nel lungo periodo invece no; la diversificazione si può e si deve fare. Però bisogna arrivarci al lungo periodo. E si parla anche di quattro o cinque anni. Quindi nel breve noi rischiamo molto, nel lungo invece Mosca sa di avere un'arma spuntata. La Federazione Russa finirà per vendere il grosso dei suoi idrocarburi in Asia. Questo è l'obiettivo. E non è uno scenario eccezionale per la Russia».
Parlando di breve e lungo periodo. E le sanzioni? Sembrava che la Russia dovesse cedere velocemente. Non è andata proprio così. È stato sbagliato qualche calcolo?
«Le sanzioni hanno sicuramente un effetto sull'economia russa. Il punto è stabilire la tenuta di un paese che è molto diverso dai paesi occidentali. Per intenderci, se le medesime sanzioni ora applicate ai russi fossero applicate a qualsiasi altro paese occidentale avrebbero avuto un effetto molto più drammatico. Ben oltre a quello a cui assistiamo in Russia. Perché noi abbiamo molto più da perdere».
In che termini?
«Siamo paesi che vivono di benessere. O di un benessere relativo. E quindi una sua erosione in paesi demograficamente anziani come i nostri, convinti che la guerra sia finita e che i discorsi tra potenze siano un relitto del passato - mentre invece sono questioni del presente e del futuro, basta osservare quello che succede a Taiwan -, ci farebbe durare molto meno. I russi non conoscono il nostro benessere. E quindi non hanno la stessa nostalgia della sua assenza che potremmo avere noi. Le sanzioni quindi stanno avendo un effetto, ma non massicciamente proprio per questo motivo, per il carattere e le condizioni di vita del popolo russo, e poi perché l'economia russa esporta ciò che non produce. Gli idrocarburi. E, al di là delle chiacchiere, lo dicono le cifre, la Russia in questi mesi di guerra ha fatto grandi affari dalla vendita del gas. E anche del petrolio, che addirittura ha aumentato i suoi introiti. Finora abbiamo ridotto il gas quasi di niente, mentre sia sul piano del petrolio che su quello del gas, cinesi e indiani su tutti hanno importato molto di più rispetto al passato».
Alle sanzioni dell'Unione Europea ha aderito anche la Svizzera. E si è innescato un forte dibattito sulla neutralità. Per alcune forze politiche è stata "tout court" una rottamazione...
«Certo, la Svizzera, non essendo un membro dell'Unione Europea, non è tenuta ad applicare le sanzioni. Ma così facendo, nel caso di affari con la Russia, rischierebbe poi di incorrere nelle cosiddette sanzioni secondarie».
Ma questo allineamento intacca davvero la neutralità svizzera?
«Bella domanda. Parlare di neutralità svizzera è sempre molto peculiare. Occorre però partire da un presupposto, ovvero che la neutralità non esiste. È un concetto figurato. La Svizzera è un paese formalmente neutrale. Ma è un paese occidentale, inserito a tutti gli effetti nel campo occidentale e in quello statunitense. Pur non essendo nella Nato né nell'Unione Europea. Ma è un paese estremamente armato e che ha un'idea di sé molto specifica. In questo caso, una neutralità "cooperativa" è di fatto un'adesione, inevitabile ma con alcuni distinguo, al campo occidentale. E, al di là dell'aspetto formale, la Svizzera non ha grandi margini di manovra. Perché se un domani decidesse, per fare un esempio, di mettersi a vendere tecnologia avanzata alla Russia, incapperebbe sicuramente in gravi sanzioni e penalità. E non solo da parte dell'Unione Europea ma forse, che conta ancora di più, anche da parte degli Stati Uniti».
Oltre ad armi e sanzioni, la guerra si combatte anche con le informazioni, con la propaganda e con le provocazioni. A distinguersi da questo punto di vista è stato sicuramente l'ex presidente russo Dmitry Medvedev. Un tempo il volto moderato di Mosca, che tutti ricordano addentare un hamburger con Obama, è ora un falco in prima linea, ferocissimo. Cosa è successo?
«Abbiamo scoperto che è russo. Non è cambiato lui, è semplicemente cambiato il periodo storico. Medvedev era presidente dieci anni fa e da allora sono cambiate troppe cose. All'epoca Obama derubricò la Russia come semplice potenza regionale e questo non fu gradito al Cremlino e dintorni. A quel tempo la Russia viveva un momento di grande placidità. Incassava moltissimo dalla vendita degli idrocarburi, i prezzi erano molto alti. Riusciva a gestire l'Ucraina attraverso Viktor Yanukovych, che era un burattino di Mosca. E tutto questo giustificava un atteggiamento che era molto meno aggressivo di adesso. Anche con gli Stati Uniti, che erano alle prese con il chiudere i loro assurdi impegni in Medio Oriente, e quindi erano distratti da altro. Tutto questo consentiva, anche a un signore, che poi abbiamo scoperto non essere un democratico liberale e illuminato, di essere un volto calmo e presentabile. Lui era, come definito in un cablo diplomatico dagli americani, il "Robin di Batman", e quest'ultimo era ovviamente Putin. I due si erano divisi i ruoli di poliziotto buono e cattivo. Ora, in tempi di guerra, con una situazione internazionale molto peggiorata per la Russia, forse hanno bisogno entrambi di fare i poliziotti cattivi».
Le provocazioni e la propaganda sono anche il carburante di ogni campagna elettorale. E non possiamo in questo senso non soffermarci sulla situazione italiana. Dove l'esito della contesa sembra già scritto...
«Il centrodestra in Italia viaggia verso quella che oggi sembra una vittoria semplice. Dovrebbero accadere dei cataclismi per cambiare questo scenario».
Con numeri che, secondo alcuni sondaggi, sono senza precedenti...
«Sì. Il segretario del Partito Democratico Enrico Letta, forse anche magnificando un po' i dati, ha parlato di un 70% dei seggi in parlamento che potrebbero finire al centrodestra. E, se così fosse, sarebbe una situazione da record».
E la possibilità di fare qualsiasi cosa...
«Anche cambiare la Costituzione»
Al fianco degli slogan e delle agende, che quest'anno sembrano andare molto di moda, c'è però molto poco in questa campagna elettorale. Programmi e contenuti latitano. Ma i problemi strutturali in Italia di certo non mancano. Quali sono i più urgenti?
«I veri problemi strutturali e strategici del nostro paese non sono stati presi in considerazione da nessun dibattito. In particolare quello demografico. Gli italiani vanno letteralmente scomparendo. E non è un'iperbole. L'Italia da due anni ha perso quasi 700'000 abitanti. Non sono più sufficienti nemmeno gli immigrati a supplire a questo scadimento nelle nascite. Se poi aggiungiamo il fatto che, con il Giappone, l'Italia è il paese più anziano al mondo... Ecco, come può questo non essere il primo tema su cui dibattere? Aggiungiamoci in più che lo spopolamento nel nostro paese avviene un po' ovunque ma è acuto e drammatico al sud, dove secondo le stime entro il 2070 ci saranno quasi 5 milioni in meno di persone. Però non se ne parla. Tutto ciò di cui si discute sono gli incentivi economici, peraltro già previsti, ma ciò che non si riesce a comprendere è che la questione non è solo economica. Quando un paese non fa figli la questione non può essere solamente economica, e il Giappone lo dimostra. La questione da risolvere è spesso culturale».
L'appuntamento con Dario Fabbri al Festival Endorfine - Il Mondo che verrà - è in programma per domenica 11 settembre, ore 15, al Boschetto Ciani di Lugano (o, in caso di pioggia, al Palazzo dei Congressi). La prevendita dei biglietti e maggiori informazioni sono disponibili su Biglietteria.ch.