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NORVEGIA / TICINOAlla disperata ricerca di un'identità

19.04.12 - 20:27
Breivik rivendica la strage per difendere l'Europa dal multiculturalismo. Nell'era dell'esaltazione del folclore, della difesa dei dialetti e della rivalorizzazione delle identità locali, l'uomo moderno occidentale è alla disperata ricerca della sua identità. Il parere dello psichiatra
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Alla disperata ricerca di un'identità
Breivik rivendica la strage per difendere l'Europa dal multiculturalismo. Nell'era dell'esaltazione del folclore, della difesa dei dialetti e della rivalorizzazione delle identità locali, l'uomo moderno occidentale è alla disperata ricerca della sua identità. Il parere dello psichiatra

LUGANO - Al quarto giorno Anders Behring Breivik ha rinunciato al suo saluto. Lo ha fatto per tre giorni. Il gesto, braccio teso in avanti e pugno chiuso, è stato considerato provocatorio dalle famiglie delle vittime e dai sopravvissuti.  Un gesto rivolto al mondo, un rito che ha segnato in pratica l'apertura dei primi tre primi giorni di processo nei suoi confonti. Un processo che si celebra a meno di un anno della strage che ha sconvolto la Norvegia e ha scioccato il mondo. Il 32enne davanti ai giudici spiega di non aver agito che per legittima difesa, di voler difendere la Norvegia dal multiculturalismo, dall'inforestierimento e di salvarla dalla de-cristianizzazione dell'Europa. Il cristianesimo, l'Europa, l'identità. In qualche modo la terribile strage dell'estate scorsa, compiuta in nome di una disperata lotta contro il mondo e le sue regole, solleva quello che, in Europa, (continente dove l'etnocentrismo ha conosciuto le sue forme più estreme e distruttive) è il tema dell'identità.

Sul caso Breivik abbiamo chiesto il parere al dottor Saul Branca, presidente dell'"Istituto ricerche di gruppo" di Lugano, psicologo e psicoterapeuta, proprio per capire, sotto un punto di vista psichiatrico, questa tematica.

Dottor Branca, uno psicologo davanti a uno come Breivik come si comporta? Quale preparazione deve avere per affrontare persone che hanno compiuto gesti così efferati e raccapriccianti?
“Non c'è un modo standard di relazionarsi con personaggi del genere. In termini generali uno psicoterapeuta, grazie alla sua analisi personale, dovrebbe saper valutare la sua capacità di relazionarsi con soggetti particolarmente disturbati o che hanno commesso gravi crimini. Per analisi personale intendo un percorso di terapia al quale bisogna sottoporsi durante la formazione. Il professionista dovrebbe riuscire a capire fino a che punto può entrare in relazione con soggetti  che hanno commesso degli atti del genere. Poi bisogna distinguere un'altra cosa e cioè stabilire se il lavoro da fare è peritale o terapeutico. Fare un distinguo cioè fra l'intervento peritale, dove il professionista può assumere un atteggiamento di distacco e di obiettività e un intervento più terapeutico, dove un certo coinvolgimento empatico è necessario. E questo ultimo compito è più difficile con questa categoria di persone, che hanno commesso crimini che suscitano ribrezzo e ostilità”.

Breivik non presenta segni di pentimento. Cosa succede quando una persona come Breivik si rende conto di quello che ha fatto?
“Normalmente dovrebbe stare malissimo. Reagire cioè in termini di profondi e dolorosissimi sensi di colpa. Non sembra il caso di Breivik. Il fatto di non verificare  sensi di colpa e sentimenti di autocritica è già un’indicazione importante in termini diagnostici”.
 
Secondo lei sarebbe giusto censurare o filtrare quelli che sono i messaggi  lanciati da Breivik? Non c'è il pericolo che questo processo possa fungere da veicolo delle sue ideologie?
“Sicuramente. Il rischio di far diventare questo processo una cassa di risonanza che possa amplificare sentimenti razzisti o xenofobi c'è”.

Sarebbe giusto quindi censurare o affrontare il processo in modo diverso a livello di media?
“La psichiatria e la psicologia, da sole, faticano a dare riposte soddisfacenti a questo quesito. È necessaria una riflessione che abbracci anche le dimensioni  sociologica e storica. Comunque non credo che il problema sia l’informazione, ma piuttosto il modo in cui la si fa.”

Allora riformulo la domanda in altro modo. Non c'è il rischio che questo processo faccia presa sui più vulnerabili?
“Ritengo che siano i media a doversi interrogare sull'opportunità o meno di amplificare al massimo un avvenimento del genere. In tutti i casi io non sono un grande amico della censura. Anche se non credo sia necessario che queste cose vengano amplificate, magari banalizzandole, per poterle portare in ogni salotto televisivo, come si vede soprattutto in paesi a noi vicini”.

Breivik parla di resistenza europea, di necessità di difendersi dalla minaccia islamica. Quanto è importante il fattore identità in una persona in un mondo che sembra stia riscoprendo i localismi e la necessità di appartenenza e alle origini?
“Premetto subito col dire che il mio è un discorso da psicologo e non da sociologo. Detto questo, il concetto di identità è un elemento di base per la salute mentale di una persona. Per capire in che modo entrare in contatto con il mondo esterno, io devo sapere chi sono : quali sono i miei desideri, la mia capacità, i miei limiti, le mie inclinazioni, ecc... Se non so chi sono,  facilmente mi troverò in situazioni che possono generare in me disagio e sofferenze. Se so chi sono, questo contribuisce a farmi stare bene e a collocarmi nel mondo in un modo conseguente alla mia personalità. E nel “chi sono” rientrano anche le determinanti socio-storiche. Detto questo, il punto è capire come mai uno crede che bisogna difendere la propria identità e l'identità socio-storica con le armi. A me verrebbe voglia di dire che è quando l'identità è sentita come fragile,  che  si sente la necessità di difendersi in modo così aggressivo e persecutorio. Quando l'identità è solida , il confronto con il diverso è meno pericoloso”.

Questa ricerca dell’identità attraverso i valori volti alla riscoperta del mondo dei tempi che furono è una reazione collettiva di paura?
“Potrebbe essere una sorta di reazione difensiva volta a solidificare dei confini che sono vissuti come a rischio. Che poi questi confini siano personali e siano a rischio perché il soggetto soffre di schizofrenia o se siano a rischio i confini collettivi e culturali perché sono in atto dei cambiamenti di civiltà ed epocali questo è un altro discorso”.

Da professionista e dal suo osservatorio , il problema dell'identità è molto sentito?
“Il problema psicopatologico degli ultimi decenni è strettamente legato alle difficoltà identitarie. Sono venute a galla delle sofferenze che non hanno più a che fare con il senso di colpa e con la difficoltà a confrontarsi con la pulsionalità e con il desiderio. Il problema è a monte : il soggetto moderno soffre per il fatto di faticare a identificare e costruire i propri desideri e dunque la propria identità. Un cambiamento che psicologi e psichiatri hanno notato  nella psicopatologia ormai da decenni. Prima erano predominanti le patologie nevrotiche, ora quelle narcisistiche legate proprio a problematiche identitarie.”
 

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