Alle parole della Procura generale non sono seguiti i fatti, anzi. La storia della forza di polizia che Teheran non può smantellare.
Circa una settimana, il procuratore generale Mohammad Jafar Montazeri aveva dichiarato, così come riportato dall'agenzia di stampa iraniana Isna, che il regime iraniano aveva deciso di abolire la polizia religiosa e che si stava per mettere mano alla legge che obbliga le donne iraniane a indossare l'hijab, il velo islamico.
«La polizia morale non ha niente a che fare con la magistratura, ed è stata abolita da chi l'ha creata», ha affermato Montazeri. Una dichiarazione, questa, colta con grande entusiasmo dalla stampa internazionale ma che è stata subito ridimensionata – con una smentita più o meno netta – dalle autorità governative. Al di là delle parole, quindi, l'attesa svolta liberale non è stata affatto confermata dai fatti. Anzi, proprio gli ultimi giorni in Iran sono stati caratterizzati da arresti, esecuzioni particolarmente efferate e repressioni violente.
Il braccio della repressione
In questi ultimi mesi, si è molto parlato della polizia religiosa iraniana che si è macchiata di crimini odiosi, come l'uccisione della ventiduenne curda Mahsa Amini, arrestata a Teheran il 13 settembre scorso con l'accusa di aver indossato l'hijab in maniera scorretta mettendo in mostra una ciocca di capelli. L'uccisione della giovane donna, a cui sono seguite quelle di molti altri inermi manifestanti, hanno scatenato nel Paese una ondata d'indignazione e rabbia contro l'attuale regime di cui la folla è arrivata a chiedere la destituzione.
L'ipotesi ventilata dell'abolizione polizia religiosa, quindi, potrebbe essere un modo per iniziare a saggiare l'umore della gente e trovare un compromesso per porre fine alle dimostrazioni di piazza che, per la prima volta, mettono in serio pericolo la sussistenza della dittatura religiosa in Iran. Già da tempo, molti analisti parlano di un probabile piano, posto in essere dal regime iraniano, per rispondere alle istanze dei manifestanti ed è proprio in tale ottica che andrebbero interpretate le parole del presidente Ebrahim Raisi che ha affermato che «ci sono metodi di attuazione della Costituzione che possono essere flessibili».
Tuttavia bisogna ricordare che fu proprio Raisi, leader estremamente conservatore, ad aver dato mandato alla polizia religiosa, Gasht-e-Ershad, in persiano, d'interpretare, in maniera ortodossa, le regole sul velo e sulle modalità per indossarlo correttamente. Fu lo stesso presidente, il 15 agosto scorso, a firmare un decreto secondo il quale le donne che pubblicano le proprie foto sui social network senza hijab devono essere private di alcuni diritti sociali, quali l'ingresso in banca, sui mezzi di trasporto o negli uffici, per un periodo compreso tra i 6 mesi e un anno.
"Educate" a suon di botte
L'operato della polizia morale si fonda sul concetto di hisbah che, nel Corano, invita ad apprezzare ciò che è giusto e disprezzare ciò che è sbagliato. Tale giusto precetto, nel tempo, è stato però declinato spesso in maniera errata ed ha portato alla proibizione di oggetti e atteggiamenti che in sé non avevano nulla di scorretto, come fare musica, indossare scarpe con il tacco, andare in bicicletta o far volare aquiloni. In Iran, l'hisbah ha significato divise verdi e camionette militari sulle quali caricare tutte coloro che venivano considerate non in linea con i dettami religiosi, fosse anche per uno spolverino un po' più aderente e del mascara appena accennato.
Una volta arrivate alle cosiddette 'case di correzione', le 'malvelate' vengono rieducate a suon di botte e poi, se va bene, firmano un documento nel quale dichiarano di aver capito il proprio errore e vengono riconsegnate a un parente maschio, dietro pagamento di una multa, oppure non escono più vive dalla sede dei propri aguzzini.
La dura legge della Sharia
Da quando, nel 1979, la rivoluzione islamica voluta dall'ayatollah Khomeini, destituì la dinastia imperiale dei Pahlavi, la Repubblica islamica sciita ha fondato la propria costituzione e le proprie leggi sulla rigida interpretazione della Sharia, ossia il complesso di regole di vita e di comportamento voluta da Dio per i propri fedeli. Il 7 marzo del 1979 venne reso obbligatorio l'hijab e se, a seguito di una serie di manifestazioni di piazza, tale obbligo non divenne immediatamente effettivo, lo fu però negli anni'80, in seguito a una accelerazione del processo d'islamizzazione della Repubblica iraniana, Nel 1983, venne introdotto l'articolo 638 del codice penale secondo cui le donne che non rispettano il codice e non coprono i capelli in pubblico sono punite con il carcere, da 10 giorni a due mesi, e 74 frustate.
Come detto, per far sì che tali regole religiose venissero rispettate, fu istituita, nel 2005 da Consiglio supremo della rivoluzione culturale, per volontà dell'allora presidente Mahmoud Ahmadinejad, la polizia morale, un corpo delle forze dell'ordine iraniano, avente il compito di vigilare sulla condotta delle persone, donne in particolare, le quali devono portare abiti ampi e lunghi che ne nascondano la figura e l'hijab a nascondere totalmente i capelli. Fino a tale data, i codici di abbigliamento venivano fatti comunque rispettare da forze dell'ordine e unità paramilitari iraniane, come le pattuglie Jondollah, operative negli anni'80, o le pattuglie Komite. Queste ultime erano solite costringere le donne a indossare l'hijab e ad arrestare uomini e donne che si trovavano insieme per strada senza essere regolarmente sposati.
Fermate per strada e portate in centrale
L'applicazione delle regole sull'hijab è stata quindi attuata in vari modi dal 1989 al 2005, anno in cui, come visto, Gast-e-Ershad ha assunto ufficialmente tale compito. Gli agenti controllano le donne che camminano per strada, e se notano una minima infrazione al codice dell'abbigliamento le avvicinano chiedendo loro di abbottonarsi il cappotto o coprirsi i capelli. Se, dal controllo delle carte d'identità, dovesse emergere che hanno precedenti, possono decidere di arrestarle e portarle nel famigerato quartier generale di via Vozara, a Teheran. Da qui, si può essere rimandate a casa sotto la custodia di un familiare di sesso maschile o subire violenze e pestaggi, come nel caso di Mahsa Amini.
Spesso le donne arrestate subiscono delle violenze fisiche in famiglia, quale scotto da pagare per il proprio arresto e, nei casi peggiori, anche l'uccisione per il disonore recato alla famiglia. Nonostante l'ayatollah Khameini, nei suoi discorsi, abbia fatto cenno alla necessità di promuovere l'uso dell'hijab attraverso un approccio culturale e non imponendolo con la violenza, con l'elezione, nel 2021, del presidente Raisi le cose sono ulteriormente peggiorate.
Moltissimi sono gli episodi di violenza posti in essere dalla polizia morale, come l'arresto, nel luglio di quest'anno, di Sepideh Rashnu, una scrittrice iraniana, che si è rifiutata d'indossare il velo sull'autobus. La donna è stata arrestata e, successivamente, é stata costretta a dichiarare in televisione di essere stata motivata a compiere tale gesto da alcuni soggetti stranieri. Sul suo volto, però, vi erano evidenti segni di violenza. E' quindi sbagliato considerare l'omicidio di Masha Amini come un caso isolato.
La verità è che la morte della giovane donna è stato l'episodio scatenante di un rabbia che già covava nella popolazione, costretta a vivere nella paura degli interventi arbitrari della polizia morale e nella impossibilità di godere di una vita libera e senza vincoli religiosi. Il problema, infatti, non è l'hijab in sé come simbolo religioso ma il fatto che sia obbligatorio indossarlo senza che la decisione sia rimessa al sentimento religioso di ciascuno.
Un cambiamento impossibile
Se, quindi, da una parte, si vorrebbe poter festeggiare della effettiva abolizione della polizia morale, dall'altra parte continuano a giungere dall'Iran notizie poco confortanti in tal senso. Mentre il procuratore Montazeri, infatti, faceva presagire una eventuale apertura sul codice dell'abbigliamento, veniva demolita la casa di Elnaz Rakabi, la scalatrice iraniana, attualmente agli arresti domiciliari, che aveva gareggiato, a Seul, ai Campionati asiatici della Federazione internazionale di arrampicata sportiva senza velo.
Come ha scritto Shadi Sadr, una attivista per i diritti umani, sul proprio profilo Twitter «anche se la polizia morale sarà veramente abolita, l'utilizzo del velo rimarrà obbligatorio ed il suo uso potrà essere imposto con altri metodi come l'espulsione dall'università e dalle scuole». Questa è la reale paura di tutti coloro che hanno manifestato per strada, mettendo a repentaglio la propria vita, per un Iran più libero e democratico: che, di fatto, nulla cambi. Eppure, come aggiunto da Sadr «le proteste sono cominciate con l'omicidio di Masha Amini da parte della polizia religiosa, ma gli iraniani non si fermeranno finché il regime non sarà caduto».
Amnesty: «L'Occidente non può più fare finta di nulla»
Lo stesso scetticismo espresso dall'attivista è condiviso anche da Amnesty International che, con un comunicato del 6 dicembre, ha invitato la comunità internazionale «a non farsi ingannare dalle dubbie affermazioni sullo scioglimento della 'polizia morale'». Nel comunicato viene inoltre specificato che «affermare che la polizia morale non ha nulla a che fare con la magistratura (come fatto dal procuratore Montazeri), distorce la realtà, il fatto che per decenni la criminalizzazione di donne e ragazze in base a leggi abusive e discriminatorie sul velo obbligatorio è stata avvallata dalla magistratura».
Tale stortura della realtà, secondo Heba Morayef, direttrice regionale di Amnesty International per il Medio Oriente e l'Africa del Nord, non deve permettere «alla comunità internazionale e i media di far finta di niente. L'obbligo d'indossare il velo è sancito dal Codice penale iraniano e da altre leggi e regolamenti che consentono agli organi di sicurezza di sottoporre le donne ad arresti e detenzioni arbitrari e negare loro l'accesso alle istituzioni pubbliche, tra cui ospedali, scuole, uffici governativi». Il popolo iraniano, oppresso per decenni da un regime autoritario, chiede molto di più della semplice abolizione della polizia morale. Chiede ciò che dovrebbe essere garantito a ciascun essere umano: la libera determinazione di sé e della propria vita.