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LUGANOProcesso Alptransit: «La polizia ha dato il peggio di sé»

17.08.17 - 11:02
Sul banco degli imputati tre lavoratori del cantiere, ma il giudice prima bacchetta la magistratura e la polizia: «Non è così che si fa di fronte alla morte di una persona»
Processo Alptransit: «La polizia ha dato il peggio di sé»
Sul banco degli imputati tre lavoratori del cantiere, ma il giudice prima bacchetta la magistratura e la polizia: «Non è così che si fa di fronte alla morte di una persona»

LUGANO - Un ingegnere addetto alla sicurezza, il caposciolta e un macchinista. Sono questi i tre imputati del processo odierno per la morte, avvenuta il 22 settembre del 2010 nel cantiere Alptransit di Sigirino, del minatore Pietro Mirabelli. Iniziando a discutere il caso in aula però, il giudice Mauro Ermani ha messo metaforicamente sul banco degli imputati l’autorità inquirente. «Qui la polizia ha dato il peggio di sé, è partita con l’idea che fosse una tragica fatalità e non ha nemmeno misurato il calcestruzzo», ha detto. La colpa di chi doveva indagare, secondo Ermani, è di aver avuto sin da subito la convinzione che non fosse colpa di nessuno, semmai della vittima. Nell’indagine se ne sono fatte «di tutti i colori». È infatti per questo, secondo la corte, che solo grazie all’avvocato dei parenti della vittima e al «sacrificio del procuratore generale di avocare a sé l’incarico» si sia arrivati in aula poco prima dei termini di prescrizione. Il pg John Noseda, infatti, è subentrato solo successivamente a capo delle indagini. 

La prova regina della colpa degli inquirenti? Non aver controllato che il calcestruzzo spruzzato sulla volta, in gergo “Spritz”, fosse di almeno 5 centimetri di spessore. «Neanche si misurano le cose», ha continuato Ermani, «non è così che si fa di fronte alla morte di una persona, credo che qualcuno dovrebbe perlomeno essere richiamato a non ripetere gli stessi errori».

Davanti alle Assise correzionali di Lugano, i tre uomini rispondono di omicidio colposo, subordinatamente violazione colposa delle regole dell’arte edilizia. L’ingegnere, un 50enne svizzero addetto alla sicurezza sul cantiere, non avrebbe fatto in modo che si rispettassero le procedure necessarie e avrebbe permesso che la vittima fungesse da caposquadra pur non essendo formato. Così come che il macchinista guidasse una scavatrice che non conosceva.

Al caposciolta si chiede invece di rispondere dell'accusa di aver «incaricato la sua squadra di procedere alla perforazione della roccia senza verificare che fossero ultimate le precedenti fasi di messa in sicurezza». L’uomo, un 58enne italiano, avrebbe anche tollerato che dei lavoratori accedessero alla zona di pericolo. 

C’è infine il macchinista, che era alla guida di una perforatrice Jumbo Sandvik DT1130-SC, l’unico dei tre ad aver assistito alla vicenda. Il 45enne spagnolo è accusato di aver manovrato in modo errato la macchina «cagionando in tal modo la rottura e la conseguente caduta della lastra rocciosa». Inoltre è accusato di aver proceduto alla perforazione «pur avendo notato la presenza di Pietro Mirabelli nei pressi della macchina». 

In aula si sta discutendo su quali fossero le misure di sicurezza previste e sui motivi per i quali non siano state rispettate. Com’è possibile che il minatore calabrese di 54 anni fosse in una zona insicura proprio durante i lavori di scavo? Questa la domanda a cui sta cercando di rispondere la corte.

 

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