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LUGANOLa notte che a Cornaredo fu caccia grossa all'arbitro

22.09.21 - 06:00
Torna la violenza nel calcio regionale. Ma l'origine del male risale a tanti anni fa.
Reuters
La notte che a Cornaredo fu caccia grossa all'arbitro
Torna la violenza nel calcio regionale. Ma l'origine del male risale a tanti anni fa.
Un espulsione e una rete convalidata che blocca la rimonta. La partita tra Rapid e Mezzovico finì con calci e pugni all'arbitro Luigi Grassi. Per quei fatti dodici persone vennero condannate per sommossa. Il ricordo di chi allora era in aula e sugli spalti.

LUGANO - «Le storture del calcio minore». Titolava la cronaca di un quotidiano. Derive, quelle avvenute sabato sera con la rissa tra i giocatori di Semine e Locarno e la generale condanna, che riportano la memoria a 51 anni fa, alla “notte dei tumulti” di Cornaredo. 

Era il 7 maggio 1969 - Un mercoledì sera, quando a sfidarsi per il Trofeo Ticino, «non certo la Coppa Campioni» scrissero dopo il “fattaccio” i commentatori, scesero in campo il Rapid e l'A.S. Mezzovico. Anche allora la miccia dello scontro, in un match che opponeva due compagini «imbottite di ex», fu l’espulsione di un giocatore, Fausto Jorio dei vedeggini. Ma, soprattutto, la concessione della terza rete ai luganesi da parte dell’arbitro Luigi Grassi di Novazzano (la partita, sospesa, terminò 3-1 per il Rapid). A fine gara la giacchetta nera subì una vera e propria caccia all’uomo da parte di giocatori, dirigenti e accompagnatori. Solo grazie al provvidenziale intuito di Mario Bianchi, il custode dello stadio, che aprì un cancello, il povero Grassi riuscì a salvare la pelle fuggendo dal sottopassaggio sud. 

Il processo dell'anno - Sei mesi dopo, il 12 gennaio 1970, dodici protagonisti di quella serata finirono alla sbarra in quello che fu definito “il processo dell’anno”. Speciale anche per la folla che accalcò la nuovissima aula penale del Palazzo di Giustizia a Lugano, dove il giudice Gastone Luvini presiedeva, da par suo, la Corte delle assise correzionali. Tra i protagonisti anche un giovane magistrato: Paolo Bernasconi, allora avvocato 27enne, che sostenne l’accusa come procuratore pubblico sostituto straordinario.

Un bollettino di guerra - E straordinari, riletti anche mezzo secolo dopo, rimangono i sette certificati medici con le conseguenze fisiche (e non solo) riportate dall’arbitro, ricoverato dopo «l’aggressione degli scalmanati» in ospedale, dove gli riscontrarono «la perdita di due denti, nonché parecchie ferite al capo e al corpo»: «Fratture, contusioni, lussazioni, sutura, depressione psichica, vertigini, cefalee, ortopedia, reliquanti da choc». L’arbitro rimase all’Ospedale Civico dal 7 maggio al 23 giugno e in seguito finì due volte alla clinica Balgrist di Zurigo. Nel gennaio 1970, quando si aprì il processo, era ancora inabile al lavoro.

In dodici alla sbarra - Fu un processo seguitissimo dal pubblico e dai giornali. Scavando nelle cronache di allora emerge come il dibattimento ruotasse essenzialmente attorno al ruolo “scatenante” avuto dal presidente dell’A.S. Mezzovico, nonché sindaco del paese e vice direttore della Banca del Gottardo. Walter Canepa, difeso dall’avvocato Giangiorgio Spiess, entrò o meno in campo durante la caccia all'arbitro? Quattro giorni di processo furono necessari per stabilire le responsabilità degli imputati. Il gruppo dei dodici, «si potrebbe… e non solo metaforicamente, formare una squadra di calcio» ironizzò un cronista, era composto, oltre che dal dirigente-presidente, da 5 giocatori, da un accompagnatore, da un vice-allenatore, da un aiuto massaggiatore e da tre tifosi. L’atto di accusa li incolpava tutti di sommossa, di ripetute lesioni semplici intenzionali. Quattro di essi (tra cui il presidente del Mezzovico) di ripetute minacce. Tutti, di ripetute ingiurie.

«Ti spacco la faccia» - Furono necessari quattro giorni per stabilire chi colpì l’arbitro. E soprattutto se Canepa avesse il dono dell’ubiquità, se cioè rimase in tribuna a dare in scalmane, come sostennero decine di testimonianze e un giornalista, o se sferrò anche lui un colpo a Grassi. Non contestata l’aggressione da parte del giocatore espulso: «Io non giocherò più al calcio, ma - fu la promessa di Jorio dopo il cartellino “rosso” - ti spacco la faccia». In aula, interrogato sull’origine della gragnuola di colpi, l’arbitro riuscì a riferire «solo di un pugno di Jorio allo zigomo sinistro e di un pugno, da parte, di Walter Canepa allo orecchio sinistro».

Gli aizzatori pagano il conto - Erano le 16.20 del 15 gennaio 1970 quando il giudice Gastone Luvini diede lettura del verdetto: tutti e dodici gli imputati vennero giudicati colpevoli - con pene variabili tra i 10 giorni e i 4 mesi di detenzione - del reato di sommossa. Ritenuto il maggiore responsabile, Walter Canepa, fu condannato a 4 mesi di detenzione (di lui si parlò ancora nel 1994 quando sparò al presidente della Banca del Gottardo Claudio Generali, ma questa è un’altra storia). Proprio per le difficoltà di vedere chiaro nel tumulto, non vennero riconosciuti i reati connessi all’aggressione: «Gli imputati pagano per la sommossa - disse Gastone Luvini -. Come si deve graduare la punizione? Se ci sono gli aizzatori, questi sono quelli che devono pagare più caro. Sono, per dirla alla buona, quelli che spingono dietro, che soffiano sul fuoco. In una società sportiva si parte dall’alto della piramide». Parole che, mezzo secolo dopo, restano un monito. Perché a seminare vento...

Paolo Bernasconi: «Mi avessero informato subito, li avrei arrestati tutti»
Aveva solo 27 anni e sosteneva l’accusa. Scrissero che, in aula, fu «preciso come un matematico, dosato come un farmacista». Fu, ricorda oggi l’ex Procuratore pubblico Paolo Bernasconi, «una penosa, matematica, attribuzione a ciascuno di un calcio, uno schiaffo, un pugno o un’ingiuria. Ma con la scoperta del reato di sommossa venne offerta la soluzione al tribunale».

II reato di sommossa, continua l’avvocato, «non l’aveva mai utilizzato nessuno in tutta la Svizzera. Aveva permesso di ottenere, fino al Tribunale federale, la condanna di tutti i partecipanti, proprio perché si tratta di un reato collettivo. Infatti era stato difficilissimo raccogliere le prove di quanti pugni e quanti calci e quante gomitate avesse dato ciascun giocatore al malcapitato arbitro che era stato in ospedale vittima di lesioni gravi, specialmente al viso». 
Bernasconi ricorda bene le difficoltà della ricostruzione dei fatti: «Siccome ero stato informato soltanto alcuni giorni dopo il pestaggio, ovviamente si erano già ritrovati tutti dai loro avvocati per concertare la versione più edulcorata. Fossi stato informato la sera stessa li avrei arrestati tutti e la verità sarebbe venuta fuori in fretta». E oggi? «Il Pm è enormemente facilitato perché dispone delle riprese televisive».

Dall’aula alla tribuna, quella sera a Cornaredo c’era anche un altrettanto giovane Giancarlo Seitz. Il deputato della Lega, all’epoca faceva per passione l’arbitro e assisteva alla partita con alcuni colleghi fischietti: «Ricordo l’indimenticabile spavento per il nostro collega… Gli fecero cadere addosso la scala di ferro usata dai cronometristi, mentre i dirigenti e i giocatori del Rapid cercavano di aiutarlo e il presidente in tribuna incitava alla violenza contro il povero Grassi». Qualche brutta, personale, esperienza da arbitro la ricorda anche Seitz: «In quarta divisione ho ricevuto un pugno in faccia con la frattura dello zigomo. Un segno che porto ancora oggi… Ma quelle 8oo partite in quindici anni sono state una scuola di vita che mi ha insegnato ad avere il coraggio di prendere delle decisioni». 

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