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CANTONE«Abbiamo paura degli altri, preferiamo la solitudine»

11.08.21 - 08:23
La società è sempre meno empatica, disponibile e attenta ai problemi dell'altro.
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«Abbiamo paura degli altri, preferiamo la solitudine»
La società è sempre meno empatica, disponibile e attenta ai problemi dell'altro.
Lo dimostra il caso di un uomo morto sul tram a Zurigo tra l'indifferenza dei presenti. Per Daniele Ribola, psicoterapeuta, la colpa è della «virtualizzazione della realtà». Ma il Covid ha dato il suo contributo.

LUGANO - Ha viaggiato per sei ore su un tram, esanime, senza che nessuno si preoccupasse di lui. È morto così, tra l'indifferenza degli altri viaggiatori. Accadeva solo un paio di settimane fa a Zurigo. Il dramma dell'indifferenza si è ripetuto domenica, nel Canton Argovia. Sdraiato a terra, reso incosciente dall'abuso di alcol, un giovane ha trascorso così ore intere senza che nessuno muovesse un dito. «La cosa spaventosa e allo stesso tempo incomprensibile è che in molti gli sono passati accanto», riferisce il testimone che ha contattato i soccorsi. La notizia, finita sui social, ha subito scatenato una serie di commenti critici che di fatto condannano la deriva di questa società.

Ma stiamo davvero diventando freddi e insensibili ai problemi degli altri? Lo abbiamo domandato a Daniele Ribola, psicoterapeuta e psicoanalista luganese fondatore della Libera Scuola di Terapia Analitica (Li.S.T.A.). 
«Stiamo assistendo a un fenomeno importantissimo, globale, e che si sta aggravando: la virtualizzazione della realtà. Una realtà sempre più decorporeizzata, grazie all'ausilio del web e dei suoi strumenti. Lo vediamo nei comportamenti sociali di tutti i giorni. La gente è assente, immersa nel proprio telefonino. Nessuno si parla, ma passa il tempo dialogando con "fantasmi virtuali". Il problema si riflette anche nel comportamento sessuale, dove il corpo dell'altro diventa a sua volta virtuale».

La pandemia ha contribuito ad alimentare questa sorta di egoismo? 
«La pandemia ha sicuramente dato il suo contributo, grazie al maggior consumo di tecnologie di comunicazione virtuale. Ma il processo esisteva già e continuerà a esistere anche quando la pandemia sarà solo un ricordo. Si tratta di un cambiamento epocale di una portata che ancora non siamo in grado di stimare».

Quindi nessun "Long Covid", almeno se si guarda ai rapporti umani...
«Gli effetti sociali e comportamentali della pandemia sono minimi e saranno di durata breve. Sono convinto che se la pandemia scomparisse, nel giro di pochi mesi tornerebbe tutto come prima. E in un certo senso direi anche che mi dispiace. Questo brutto virus non è bastato a suscitare quelle riflessioni profonde, quelle modificazioni del comportamento, che potevamo forse attenderci». 

Un evento simile non ha davvero lasciato strascichi?
«Si è accentuato uno dei fenomeni patogeni più diffusi alle nostre latitudini: la mancanza di relazioni orizzontali. Sono venuti meno quei piccoli rapporti umani alla base del tessuto sociale che possono consumarsi per strada, su un bus o dal panettiere. ». 

La gente non soffre per questo?
«Uno dei problemi che incontro più spesso è la solitudine, il sentimento di essere completamente isolati dalle cose del mondo. È molto diffuso da noi, meno ad altre latitudini. Ciò non perché la gente sia cattiva, ma perché è più bloccata, meno abituata a questo tipo di micro rapporti sociali. La realtà dell'altro viene vista un po' come una minaccia. Se incontro per strada qualcuno che sta male, ho timore a fermarmi per chiedere se ha bisogno di aiuto. Temo di essere coinvolto in qualcosa di inatteso. Questo magari perché ho già una programmazione della giornata molto serrata, quindi l'altro è sempre un intruso, al quale non ho tempo da dedicare». 

Le nuove generazioni, inoltre, vedono il mondo esterno filtrato dai device e i social network. Tutto ciò che non piace può essere "skippato" o nascosto. 
«Tutto ciò che non produce piacere può essere "eliminato", bypassato. Un mio paziente mi diceva: "Amo le donne, ma il loro corpo mi disturba". Insomma preferiva una sessualità virtuale piuttosto che avere a che fare con il corpo reale di una donna. Siamo all'inizio di una realtà umana problematica, come minimo».

Il Giappone, con i suoi "hikikomori", ha in qualche modo anticipato i tempi?
«Sembrerebbe di sì. Sono patologie giovanili che iniziano a manifestarsi anche da noi, si stanno diffondendo e sono molto difficili curare, in quanto espressione patologica di una società che è costruita da tutti».

Qual è l'antidoto? 
«Riabilitare la materia viva dell'altro costituita dal rapporto umano fisico, reale. Non online, ma - come si dice oggi - in presenza». 

 

*Con il termine hikikomori si intende una particolare sindrome che colpisce giovani e giovanissimi. “Stare in disparte, isolarsi” è il significato della parola hikikomori, termine giapponese che deriva dal verbo hiku (tirare indietro) e komoru (ritirarsi).

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