Abusata all’età di 5 anni, la giornalista Roberta Nicolò si sfoga, a poche settimane dalla condanna del funzionario cantonale molesto: «Le denunce emerse dopo decenni? Sempre attendibili».
LUGANO – “Basta omertà. Pubblicate nomi e dettagli”. Non si placano le polemiche dopo la condanna del funzionario statale, esperto in politiche giovanili, accusato per molestie su minori. Le rivendicazioni di chi vorrebbe vedere pubblicata ogni virgola dei verbali infastidiscono Roberta Nicolò, giornalista ticinese e autrice di “Non sono Cappucetto Rosso”, libro verità in cui l’oggi 46enne racconta le conseguenze degli abusi subiti all’età di 5 anni. Il romanzo ora diventerà anche un film, un cortometraggio che sarà ultimato entro fine anno.
Nicolò, sui social c’è chi chiede che i dettagli sul processo vengano pubblicati, compreso il nome del funzionario. Cosa ne pensa?
Ogni volta che c'è un caso del genere, la gente si scatena sui social. C’è un moto di indignazione violenta, quasi come se ci si volesse mettere nei panni delle vittime, umanamente lo capisco. Ma in realtà, in questo modo, le vittime vengono ferite ancora di più.
Il processo all’esperto di politiche giovanili ha rivelato dettagli scabrosi mai pubblicati dai media. Giusto tenerli riservati?
Sì. Una vittima ha diritto di scegliere se e come parlare della sua storia, trovare i dettagli pubblicati sui giornali può provocare ancora più sofferenza. Ci vuole rispetto. Anche fare il nome dell’autore degli abusi non ha alcun senso. Queste persone hanno comunque dei parenti che soffrono e che sono estranei ai fatti. Fare un cognome coinvolgerebbe inutilmente gente che non ha colpe. Inoltre non aiuta la prevenzione.
In occasione del processo in questione, lei ha inviato una lettera ai media. Perché lo ha fatto?
Perché, come troppo spesso accade, il caso stava travalicando il limite del rispetto. E perché, proprio per il forte coinvolgimento della politica, era giusto che ci fosse anche la voce di chi un abuso lo ha subito. Aizzare le folle e incitare alla violenza non aiuta le vittime. Ho ricevuto messaggi di tanti altri che, come me, hanno subito abusi. Mi hanno ringraziata per quella lettera. L’attenzione, soprattutto della politica, non può essere sul nome di un predatore sessuale. Ma deve essere, piuttosto, rivolta alla prevenzione degli abusi.
A volte i casi di presunti abusi si sgonfiano clamorosamente. In altre circostanze si chiudono con pene ridicole. Qual è la sua opinione?
Ogni caso è a sé. Sull’adeguatezza delle pene si può discutere, effettivamente. Non sempre l'arrestato è colpevole. E per questo esistono gli embarghi stampa, gli accertamenti. Nella Svizzera italiana c’è una squadra speciale competente nel dirigere questo tipo di indagini.
Spesso gli abusi vengono denunciati ad anni di distanza. A volte ci si chiede se possano essere credibili.
Sì, che possono esserlo. Certi traumi possono restare dentro di noi anche per decenni. In silenzio.
Parliamo della sua storia…
Io ho subito abusi all’età di 5 anni. A commetterli fu un imbianchino che lavorava nella casa di una vicina. Aveva 42 anni.
E poi cosa accadde?
I miei genitori lo scoprirono, venne denunciato e ci fu un processo, con una condanna. Quando nel 2015 ho deciso di rendere pubblica la mia storia l’ho fatto per dare un messaggio positivo alle altre vittime. Chi ha subito un abuso non deve vergognarsi, è giusto denunciare.
Lei ci ha messo la faccia.
Nel farlo ho scelto, però, di non descrivere l’abuso e di non riportare il nome dell’abusante. Sono contraria alla pubblicazione di certi dettagli, lo ripeto. Sono inutili. Ho descritto dettagliatamente, invece, cosa provoca l’abuso in una persona. Sono cresciuta in maniera fragile, ero molto diffidente. A 33 anni ho sentito il bisogno di andare in terapia, di superare certi blocchi.
Oggi, a 46 anni, come si sente?
Sono una persona realizzata. Non ho figli però. Non li ho voluti. Forse è l’unico strascico che mi porto dietro, l’unico ostacolo che non ho superato. Per il resto, sto bene.
Il fenomeno degli abusi sui minori è sempre più discusso.
Una recente statistica indica che il 15% dei giovani adolescenti ha subito in qualche modo una molestia. I casi non sono in aumento, ma c’è sempre più gente che ha il coraggio di uscire allo scoperto e di denunciare chi commette questi atti. Per questo la percezione è che ce ne siano di più. Ingenuamente qualcuno potrebbe osservare che c’è molestia e molestia. E che c’è minore e minore. Molestare una ragazza di 16 anni non è uguale a molestare una bambina di 5 anni, è vero. Ma un uomo adulto sa benissimo che a 16 anni una ragazzina non è matura. Non è un rapporto paritario. È una questione di potere. È vero che ci sono minorenni che dimostrano più anni di quelli che hanno. Ma non è una scusante. La legge una linea la deve tracciare. Altrimenti tutto si trasforma in una giungla.
Come si può lottare contro il fenomeno?
La prevenzione è fondamentale. In Ticino la Fondazione Svizzera italiana Sostegno Aiuto e protezione dell’Infanzia (ASPI) si reca nelle scuole e spiega ai più piccoli i criteri che regolano il rispetto. Lo fa in maniera semplice e adatta ai bambini. Evidenziando gli atteggiamenti che anche se portati da un adulto, non sono corretti. Si parla anche delle parti del corpo private che possono essere viste e toccate da altri solo in determinate circostanze, ad esempio dal medico. I bimbi imparano a distinguere un tocco “buono” da uno “cattivo”.
Non si rischia, così facendo, di sfociare nell’allarmismo?
No, assolutamente. Se ai bambini si forniscono determinati strumenti, in maniera adeguata, poi saranno maggiormente in grado di affrontare un eventuale tentativo di coazione quando avranno 15, 16 o 17 anni. Non bisogna fare la caccia alle streghe, ma è sbagliato non segnalare comportamenti inadeguati. Per far sì che questa diventi una buona prassi, i processi a mezzo stampa, sicuramente, non vanno fatti.