Matteo Taddei, 24 anni, racconta la sua esperienza in Burundi. Il giovane ticinese è autore di un suggestivo libro fotografico: «Laggiù ci sono anche vita e dignità»
LUGANO – La sua rocambolesca avventura ai confini tra Ruanda e Burundi, a causa di un visto mancato, e pubblicata di recente su Tio/ 20 Minuti, aveva fatto discutere. Alcuni, sui blog, hanno pure attaccato brutalmente Matteo Taddei, 24enne luganese, neo laureato in comunicazione visiva alla Supsi. Senza conoscere il nobile scopo che lo ha spinto a entrare in Burundi in maniera poco usuale (pagando una guardia di confine). Matteo doveva realizzare il suo lavoro di diploma, sfociato poi in un libro, “In Burundi si vive” che sarà pubblicato nel corso del 2019, e i cui fondi andranno a sostenere l’associazione Amici Ticino per il Burundi.
Matteo, “non siamo mica in Burundi…” Quante volte sentiamo pronunciare questa frase…
È la dimostrazione che nei confronti di questo Stato africano ci sono tanti pregiudizi. Il mio scopo era proprio quello di andare laggiù e raccontare, attraverso i miei scatti fotografici, che la gente burundese, pur essendo povera, ha una dignità.
Per due settimane hai vissuto in un centro giovanile di Kamenge, quartiere a nord di Bujumbura.
Un luogo nato nel 1993, in un periodo bellico, per mano di tre missionari. Lo scopo era, e resta, quello di riunire i giovani e di non lasciarli in mezzo alla strada. È qui che va a finire buona parte dei fondi inviati dall’associazione ticinese. Amici Ticino per il Burundi lo sostiene da undici anni.
Il tuo lavoro di diploma è diviso in quattro parti. La prima è composta da ritratti. Perché questa scelta?
Mi piaceva l’idea di mostrare come questi ragazzi avessero una propria personalità. Il secondo capitolo è invece dedicato ai campi di lavoro. I ragazzi costruiscono mattoni di fango.
A cosa servono?
In Burundi, durante le stagioni delle piogge, le case vengono praticamente distrutte. Si allaga tutto. E allora vengono ricostruite con questi mattoni, altrettanto fragili.
Proseguiamo…
Nel terzo capitolo ho puntato sulle attività ricreative del centro. Nel quarto sulle scene di vita del quartiere.
Da una realtà benestante come quella svizzera alla povertà del Burundi. Sensazioni?
Volevo dimostrare che in Burundi non ci sono solo disgrazie e precarietà. C’è anche vita. Se guardate le mie foto, vi accorgerete che non ho mai mostrato volti sofferenti. Questa gente ha poco, ma sa essere felice. Dobbiamo smetterla di pensare che se uno nasce senza l’acqua in casa, è un poveraccio.
Qual è il giusto approccio che un volontario deve attuare dunque?
Ci vuole umiltà nei confronti di queste persone. È giusto dare loro una mano perché la povertà è lampante. Io, ad esempio, sono arrivato sul posto con alcune borse di materiale sportivo e qualche fondo. Non dobbiamo, tuttavia, permetterci di rivoluzionare le loro abitudini.
Dove alloggiavi?
Avevo la mia stanza al centro giovanile. Non c’era la luce e per lavarmi usavo spesso i secchi d’acqua, la doccia funzionava solo a tratti. È stato tutto davvero interessante. In tanti erano affascinati dalla mia macchina fotografica, dal flash. Soprattutto i bambini. In quelle settimane ero l’unico bianco in circolazione. Vedevo che la gente mi guardava con curiosità. Ho vissuto sulla mia pelle cosa significhi essere un “diverso” in una terra che non conosci. È un’esperienza che mi ha fatto crescere.