Due scrittori difendono la parlata locale. Gian Paolo Lavelli ha scelto il giubiaschese "puro" per la sua poesia, mentre Miki Angelo Pina predilige per graffiare la “lingua della ferrovia”
BELLINZONA - «Il dialetto è come i tatuaggi. Non servono a niente, ma tutti li fanno». Usa un paragone un po’ azzardato Miki Angelo Pina, 70 anni e quattro libri da ventiquattromila copie alle spalle. Tutti scritti nella lingua di Sergio Maspoli, Quirino Rossi e Mariuccia Medici… La lingua che appunto, a pelle, e forse per la carica identitaria che gli è propria, lo scrittore assimila a qualcosa che uno si porta addosso.
Il tema è quello sollevato la scorsa settimana da un’iniziativa parlamentare che chiede di introdurre l’insegnamento del dialetto nelle scuole elementari e medie ticinesi. Una proposta, quella lanciata dal deputato leghista Nicholas Marioli, che ha sollevato più di una riserva tra studiosi (ed ex) del Centro di dialettologia ed etnografia di Bellinzona: quale dialetto? Come formare i docenti? sono state alcune delle obiezioni. E i lettori stessi si sono divisi tra sostenitori dell’idea e contrari perché, è stato commentato da qualcuno sul blog, “il dialetto è una lingua inutile”.
Un’opinione questa che ha fatto sobbalzare chi su tale mezzo espressivo ha sudato parecchio. Come Gian Paolo Lavelli, 80 anni, e dodici libri scritti nel dialetto di Giubiasco. L’ultima fatica, “Paròll brüsàa”, parole bruciate, è fresco di stampa con le sue 191 pagine che sondano il microcosmo giubiaschese. «Sarà l’ultimo della mia carriera, scrivere è diventato un lavoro troppo pesante. Per questo libro ho impiegato due anni, perché prima di scrivere una parola la soppeso e controllo sul Repertorio italiano dialetto e anche sui volumi del Lessico dialettale della Svizzera italiana se l’ho scritta correttamente». Lavelli fa uso abbondante (ma lui ribatterebbe, giusto) degli accenti che troviamo nelle sue poesie. «Mi piace che il dialetto - per me il giubiaschese con addentellati alla Valle Morobbia - venga letto e scritto in maniera corretta». E in parallelo va in cerca delle parole tipiche, vecchie. La difficoltà?, risponde: «Bisogna fare attenzione agli italianismi».
Bestsellerista dialettale, Pina ha fatto una scelta differente su quale dialetto scegliere. «In Ticino ci sono 67 parlate diverse, ma ce n’è una che va bene per tutti da Chiasso a Bedretto ed è il famoso dialetto della ferrovia». Una variante che l’autore del "Dizionári da la forbis" o di "Ciao Grütli" difende, «perché certi dialetti locali sono come leggere il sardo. Tanto di cappello a chi li utilizza, ma non si capisce una parola».
Divisi sul tipo di dialetto, i due scrittori sono entrambi contrari all’introduzione del dialetto a scuola: «Piuttosto si facciano delle serate di lettura aperte a giovani e anziani. Perché la gente si diverte a leggere il dialetto e certe espressioni tradotte in italiano perderebbero la loro carica, anche ironica» dice Pina, che ha sul tavolo un’idea da raccontare: «La storia di un biglietto da 20 franchi che gira nelle tasche della gente finché si ferma nel portafogli dell'ex consigliere federale Flavio Cotti». Anche Gian Paolo Lavelli boccerebbe l’introduzione della nuova materia: «Sono contrario perché il dialetto deve essere semmai parlato e insegnato ai bambini dai genitori e dai nonni. Mi spiace ma, anche se per il dialetto tocco il cielo con un dito, non vedo interesse da parte di una popolazione che oggi arriva da mille luoghi diversi». Insomma pur, per citare il finale del suo ultimo libro di poesie, “cul gropp in gura”, col groppo in gola, la sua risposta è no.