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CANTONE«Alcuni mi dicono che vanno in vacanza, e poi si uccidono»

17.10.17 - 07:00
Ondata di suicidi in Ticino, la testimonianza dello psichiatra Tazio Carlevaro: «Non possiamo dare una spiegazione a tutto»
Tipress
«Alcuni mi dicono che vanno in vacanza, e poi si uccidono»
Ondata di suicidi in Ticino, la testimonianza dello psichiatra Tazio Carlevaro: «Non possiamo dare una spiegazione a tutto»

BELLINZONA – Dieci suicidi solo in Ticino, tra agosto e settembre. Una quarantina lo scorso anno, complessivamente. Oltre un migliaio, in dodici mesi, in tutta la Svizzera. È di nuovo allarme nella Confederazione. In particolare al sud delle Alpi, con una sorprendente impennata di fine estate. Parlarne sui media? Solitamente si sceglie la linea soft. Perché, lo dicono gli esperti, potrebbe esserci il rischio di emulazione. Ma c’è chi va controcorrente. È Tazio Carlevaro, psichiatra che, nel corso della sua carriera, si è spesso dedicato al tema del suicidio.

Carlevaro, che effetto le fa leggere certe cifre?
«Non riesco a spiegarmele fino in fondo. Il suicidio continua a mantenere un lato oscuro. È forse questo che dobbiamo iniziare ad accettare. Non possiamo dare una spiegazione a tutto».

Chi sono, tendenzialmente, le persone che si tolgono la vita?
«Sono i depressi. E la depressione è una malattia del cervello, che corrisponde a uno scarso equilibrio tra serotonina e adrenalina cerebrale».

La famiglia, il lavoro... Tutto questo basta per finire in depressione?
«La società ci chiede sempre di più. E i ritmi sono sempre più stressanti. Ma sta a noi imparare a difenderci. Il collegamento col suicidio, dal mio punto di vista, è comunque relativo.  È un fenomeno che non conosciamo ancora bene, legato alla biochimica cerebrale. Io penso che non sarà mai estirpato».

Si direbbe quasi che lei giustifichi il suicidio. Perché?
«Perché non sempre si può intervenire contro la volontà di una persona quando questa ha già deciso. Il depresso a un certo punto scivola in uno stato in cui pensa che non ci sia più niente da fare e che la vita è orribile. Bisogna essere capaci di fermarlo in tempo. Non è evidente. In alcuni casi il problema è ereditario, in altri legato all’alcol, in altri ancora allo stress cronico. Ci sono tante sfumature».

Lei assolve la società dalle proprie responsabilità, dunque?
«In parte. Ci sono sempre stati suicidi. Anche in altre epoche. Vai in Estonia e in Lituania, luoghi in cui le persone sembrano tutte felici, e ti accorgi che il tasso di suicidi è alto. Il discorso vale anche per la Svizzera. Qui si sta bene. Eppure ci si suicida. In Italia, invece, ci si suicida più nella ridente Umbria, piuttosto che nella grigia Milano. Paradossale».

Lei è un terapeuta. Come si sente quando un suo paziente si toglie la vita?
«Mi sento rattristato, scontento di me. A volte capita che lo faccia in un momento insospettabile. Viene in studio, mi dice che va in vacanza, mi saluta. E poi vengo a sapere che si è suicidato. Purtroppo certe situazioni non le possiamo proprio prevedere, anche mettendoci la buona volontà. Il suicida spesso indossa una maschera. Per questo anche i famigliari non si rendono conto di cosa accade».

Come fa una persona ad accorgersi che ha in casa un potenziale suicida?
«Lo si capisce dall’atteggiamento depressivo. Se questo persiste, occorre subito rivolgersi a un medico, prima che la situazione degeneri e che si entri in una spirale di negatività».

Quanta premeditazione c’è nei suicidi oggi?
«I raptus sono rari. Di solito uno matura, nel corso di settimane o di mesi, l’idea di togliersi la vita. Le donne ricorrono più spesso a pastiglie. Gli uomini alle armi, a strumenti violenti. Non temono di sfigurarsi. Anche questa è premeditazione».

Tempo fa la responsabile di Telefono Amico disse che in Svizzera abbiamo tutto dal punto di vista materiale, ma che manca calore umano. Qual è la sua opinione? 
«Sarà. Ma, intanto, la nostra società ha fatto passi da gigante per capire e curare la depressione. Una volta i depressi venivano reclusi, emarginati».

Un tempo si diceva che chi si toglieva la vita andava all’inferno. 
«La religione non è determinante. Non lo è mai stata. Prendiamo, ad esempio, i musulmani. L'islam proibisce nella forma più assoluta il suicidio. Per ragioni religiose. Ma non si può escludere che molti casi di suicidio siano tenuti nascosti. Come accadeva, nei secoli passati, per i cattolici».

Il suicidio è un tema tabù. Perché lei ne parla così apertamente e in modo anche sgradevole?
«Io dico cose sgradevoli, è vero. Ma mi baso su dati scientifici. Su quello che ho studiato per tutta la vita. Se questi sono i dati a mia disposizione, non posso dirvi altrimenti».

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