A quattro mesi dall’esplosione del caso, le foto osé di oltre 30 ragazzine ticinesi sono ancora su DropBox. Perché? Parla la mamma di una delle giovani coinvolte.
LUGANO - «A fine gennaio, io e mia figlia siamo state in polizia a fare denuncia contro ignoti. Da allora nessuno ci ha più contattate». A raccontarlo è la madre di una delle oltre 30 ragazzine ticinesi coinvolte nello scandalo legato a immagini osé pubblicate su DropBox. La vicenda, scoperta da Ticinonline, aveva fatto discutere parecchio. A quattro mesi di distanza, tutte le fotografie hard sono ancora sulla piattaforma online, con un nuovo link. «Siamo amareggiate – riprende la nostra interlocutrice –. Il silenzio delle autorità ci ferisce. Siamo state abbandonate».
Leggerezza fatale - Immagini private, inviate a fidanzatini, che diventano virali. Una raccolta impressionante di scatti che hanno messo in seria difficoltà decine di ragazze e le rispettive famiglie. «Io ho già parlato con mia figlia – spiega la madre –. Lei sa di avere sbagliato. Ed è consapevole che periodicamente queste fotografie ritorneranno a galla. Deve mettersi il cuore in pace. Purtroppo chissà quanta gente le avrà scaricate sui propri computer o telefonini. Quello che però mi lascia perplessa è che le foto siano ancora su DropBox, visibili da chiunque».
Il ginepraio - Possibile che in quattro mesi gli inquirenti non siano riusciti a fermare i responsabili della folle iniziativa? L’inchiesta portata avanti dalla procuratrice pubblica Chiara Borelli prosegue. «Diverse persone hanno sporto denuncia contro ignoti in seguito a questo caso – conferma Saverio Snider, portavoce del Ministero pubblico –. E gli esperti della polizia hanno interrogato alcuni possibili sospetti. Per ora non si riesce a stabilire con certezza chi ci sia a monte».
Foto virali - Ogni link sospetto nel frattempo è segnalato a chi gestisce la piattaforma di DropBox, azienda con sede giuridica negli Stati Uniti. «Il fatto – puntualizza Snider – è che fare chiudere un link di DropBox non significa fare sparire il problema. Perché se qualcuno si è scaricato le immagini sul proprio apparecchio, le potrà di nuovo ricaricare su DropBox aprendo un nuovo link. Per questo non è detto che chi ha messo in rete le fotografie la prima volta sia la stessa persona che l’ha fatto adesso».
Sconforto - Insomma, un quadro che scoraggia le ragazze coinvolte e i rispettivi genitori. Ancora la nostra interlocutrice: «La polizia, a suo tempo, ci ha chiesto che tipo di risarcimento avremmo desiderato nel caso in cui i responsabili, un giorno, fossero stati identificati. Noi vogliamo solo che ci chiedano scusa guardandoci negli occhi. E dalle autorità vorremmo qualche parola di conforto. A volte ho l’impressione che la vicenda sia stata sottovalutata».
Prevenzione - Al Ministero pubblico respingono questa ipotesi. «Non abbiamo abbandonato nessuno – replica Snider –. Purtroppo queste situazioni sono incontrollabili. È davvero difficile anche per gli inquirenti venirne a capo. Bisogna parlare con Berna, con gli Stati Uniti. Le risposte faticano ad arrivare. Quello che davvero possiamo fare adesso è lavorare sulla prevenzione. Affinché nessun altra persona caschi più in queste trappole virtuali».