08 ago 2008 - 09:40 Aggiornamento 15 nov 2014 - 01:51 0
Dall’uomo alla politica, le solitudini di due paesi
Due opere prime aprono il concorso: l’intenso e teso “Parque via” del messicano Enrique Rivero e il meno riuscito “Autumn” del turco Ozcan Alper.
di DANIELA PERSICO
La solitudine e le sue conseguenze. Il malessere sociale che si amplifica nell’isolamento umano e il dolore esistenziale che cerca orizzonti desolati schivando ogni rapporto. La prima giornata del concorso internazionale si apre con due opere prime che puntano in alto: l’ambizione del messicano Enrique Rivero e del turco Ozcan Alper è di partire dal corpo di un uomo per raccontare la dimensione politica di due paesi.
Un obiettivo raggiunto da Parque via di Rivero, un film intenso e teso che nasce dall’attenta esplorazione di Città del Messico e dei suoi problemi sociali. Lontano dai soliti film d’inchiesta, il regista sceglie di raccontare la condizione di un popolo, gli indios, ancorandosi a uno di loro e alla sua personale storia. Beto è realmente un custode di una lussuosa villa: i lavori domestici, i silenzi, le fragili compagnie sono soltanto un’elaborazione della vera vita di Nolberto Coria. Il film si spinge verso i confini della finzione, dando spazio alla realtà e alla sua semplice bellezza: la stilizzazione di ogni inquadratura sembra l’unico modo per raccontare la devozione di Beto, la cura con la quale pulisce la vetrata che lo allontana dal mondo, la meticolosità con cui strofina la splendida vasca da bagno che da troppo tempo nessuno utilizza. Il dolore di Beto è infatti quello di essere il muto custode di una villa vuota, uno spazio meraviglioso da dieci anni disabitato e ormai messo in vendita dalla proprietaria. Proprio l’atto della vendita è un punto di rottura per la vita di Beto. La preoccupazione di come sopravvivere senza l’impiego non è il problema principale per un uomo che ha come unici contatti sociali la stessa padrona e una prostituta che viene a trovarlo due volte alla settimana. Beto soffre di alienazione, e si tratta proprio di alienazione lavorativa, non più causata dalla catena di montaggio bensì dall’angolo di paradiso di cui è stato messo a unico custode. Fuori sembra regnare soltanto il caos, l’umanità impazzita, le aggressioni e le violenze sono l’unica immagine a tinte forti che la televisione riporta all’interno della solitudine domestica in cui l’uomo si culla. Per questo è particolarmente forte che qui non ci sia un padrone, ma una gentile e altera padrona: una donna anziana a cui rendere omaggio e a cui portare devozione. Immagine del potere (e anche – chissà – dell’amore) da venerare o sopprimere a seconda dei momenti. Il gesto disperato del finale, vera rivolta politica dell’uomo, chiude un film arrabbiato, alla ricerca della dignità per l’immagine del suo protagonista.
Un outsider è anche al centro di Autumn di Alpel: il film turco segue le vicende di uno dei tanti giovani attivisti politici che hanno passato molti anni in reclusione, non finendo gli studi e abbandonando ogni attività. Il ritorno a casa di Yusuf, sulle solitarie alture del Mar Nero, vorrebbe essere un omaggio a queste giovinezze perdute per la lotta in favore della democrazia. Il film purtroppo si arena nella totale assenza di unità: mentre i toni cambiano e le immagini crescono in potenza evocatrice, la costruzione della coscienza del protagonista si perde in una serie d’inutili rimandi ai grandi romanzieri russi. E purtroppo la grazia non ha più le fattezze della prostituta gentile che – nonostante Dostoievski – non riesce minimamente a liberare Yusuf dalle proprie ossessioni.