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TicinoPerdonare non significa dimenticare

09.08.04 - 09:16
Perdonare non significa dimenticare
Parla Ian Gabriel, il regista del film sudafricano in gara « Forgiveness »

Mariella Delfanti, CdT

Il decennale dalla fine dell’Apartheid e dalle prime elezioni democratiche in Sudafrica non è passato inosservato al Festival, che nel weekend ha presentato in concorso il film Forgiveness e nella sezione Human Rights il documentario Nelson Mandela Accused no. 1.Era a Locarno in questi giorni anche l’ambasciatrice del Sudafrica a Berna Noziphò January- Bardill. Inoltre, alla prossima edizione del Festival bellinzonese Castellinaria in novembre la retrospettiva sarà dedicata alla cinematografia sudafricana.

Le proiezioni serali di venerdì hanno richiamato 6.600 persone, mentre sabato sera erano in oltre 8.000 per il film americano The Notebook e in 2.300 per l’omaggio a Marlon Brando con Queimada. Ieri sera è stata proiettata la commedia Oh Happy Day e in seconda serata Tutti gli uomini del presidente, accompagnato da un ospite d’eccezione, il giornalista Carl Bernstein, che con Bob Woodward portò alla luce lo scandalo Watergate, sfociato poi nelle dimissioni dell’allora presidente Nixon. Bernstein ha preso parte ieri anche al Forum Newsfront su cinema e media.

Oggi invece spazio alla giornata Olmi.

I an Gabriel, il suo film parla del difficile percorso di riconciliazione dopo l’Apartheid. Riflette la situazione attuale del Sudafrica?

« Riflette la realtà del passato, quella dell’Apartheid e il fatto che abbiamo un assoluto bisogno di risolvere i conflitti e i drammi che sono avvenuti. È basato su alcune delle migliaia di storie emerse nel corso dei lavori della Truth and Reconciliation Commission , ( la commissione incaricata di investigare i crimini durante l’Apartheid, ndr.). Molte di queste storie sono state stampate; abbiamo letto una grande quantità di articoli, abbiamo ascoltato le persone e ci ha aiutato anche il magnifico libro di Antjie Krog, Country of my skull , una scrittrice che indaga non solo sulla pena delle vittime, ma anche dei colpevoli. Dal libro è tratto pure il film di John Boorman In my Country » .

Il protagonista infatti appartiene in un certo senso ad entrambe le categorie: è un carnefice che diventa la vittima, l’agnello sacrificale. È l’arche- tipo di una tipologia mitologica e religiosa, in un film pieno di simboli...

« Sì, ci sono molti simboli religiosi; ma abbiamo cercato di non fermarci a una religione, piuttosto di guardare la Storia in un’ottica universale. Potrebbe essere la storia di un soldato americano in Iraq, o di uno inglese in Irlanda, ovunque dove militari e civili sono fianco a fianco. Il senso è questo: è molto facile e veloce giudicare stando da una parte o dall’altra.In realtà dobbiamo invece avere il coraggio di riconoscere anche l’ambiguità di certe categorie » .

Tornando alla religione, c’è addirittura la scena di una pesca miracolosa...

« Il senso di quella scena è che alla fine è la terra ad assolvere.Non è un cammino che può risolversi con un perdono personale: è qualcosa di collettivo; solo la terra che può scegliere il momento. È se qualcosa sta avvenendo oggi in Sudafrica è proprio questo: la terra sta perdonando e ci sta dando il messaggio di costruire qualcosa di nuovo » . La conclusione del film è un po’ inaspettata, non ottimistica. Come mai? « È stata una scelta precisa. C’è una sorta di predestinazione in tutta questa storia. È inevitabile che alla fine arrivi il perdono, così come è inevitabile che la vita rimanga dura, scioccante, e il ciclo della colpa e del perdono è accidentato, pieno di imprevisti. La terra perdona, prima o poi, ma ci saranno sempre momenti individuali di pena » .

Nel film, la figlia Sannie a un certo punto dice a Tertius Coetzee « tu non vuoi il perdono, vuoi la punizione » . Questa posizione è molto simile a quella di un personaggio del libro del premio Nobel M. Coetzee, Vergogna , che accetta di sacrificarsi per espiare le colpe di un’intera società. È un caso che anche il protagonista si chiami Coetzee?

« La frase che lei cita non era nella sceneggiatura; è saltata fuori nel corso delle prove di improvvisazione fatte prima di iniziare le riprese. Così è stato per Coetzee » .

Per restare ai riferimenti letterari, non si può non pensare al Cuore di tenebra di Joseph Conrad...

« Certo, quello è un libro fantastico che investiga proprio sul lato oscuro dell’essere di ognuno: qualunque regista sognerebbe di farne un film. E guardarsi dentro è l’unica forma possibile di riconciliazione. Noi la pensiamo come un atto tra due opposti gruppi, ma la riconciliazione più importante è quella con se stessi. È trovare finalmente la pace, prima che con le persone al di fuori, nella propria coscienza.Un perfetto esempio del contrario è quello che sta succedendo in Iraq, dove le vendette reciproche non cesseranno fino a quando la gente non guarderà al terribile passato, che è qualcosa che appartiene all’interiorità di ognuno. Finché si continuerà a guardare fuori si continuerà a punire i colpevoli, ma non si arriverà mai a un vero processo di giustizia » .

E poi ci sono le reminiscenze del teatro e del cinema classico, la tipologia dell’antieroe alla maniera dei film western...

« Abbiamo pensato alla struttura di una storia classica di ven- detta, alla maniera di Mezzogiorno di fuoco o II tesoro della Sierra Madre. Uno straniero che arriva in città e scatena il dramma: ci siamo ispirati a questo plot, e non solo per la storia e il personaggio, ma anche il paesaggio » .

Per questo è stata scelta l’ambientazione a Paternoster?

« La località è stata scelta prioritariamente per il valore simbolico del suo nome » .

Il tema della riconciliazione che sta alla base di questo film è stata l’idea guida della Commissione che ha chiuso i suoi lavori nel ’ 98. Qual è la posizione dell’opinione pubblica oggi: il Paese è disposto a perdonare?

« La società è molto più sana oggi di ieri, le persone sono molto più aperte, in vari modi anche inaspettati. Sono piccoli atti, gesti, parole quotidiane che appartengono alla sfera degli incontri sui bus, nei negozi, tra vicini. Non sono gesti automatici: la gente fa degli sforzi. E questo è fantastico: il fatto di voler fare lo sforzo » .

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