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SVIZZERA«Fra un operaio dell'Ottocento e un tassista di Uber non c'è poi molta differenza»

01.05.19 - 09:55
Parola dello scrittore e docente francese Karim Amellal secondo il quale «nell'era dell'hi-tech le disuguaglianze sono sempre più grandi»
Keystone
Tassisti spagnoli in sciopero contro Uber.
Tassisti spagnoli in sciopero contro Uber.
«Fra un operaio dell'Ottocento e un tassista di Uber non c'è poi molta differenza»
Parola dello scrittore e docente francese Karim Amellal secondo il quale «nell'era dell'hi-tech le disuguaglianze sono sempre più grandi»

GINEVRA - Altro che gioioso modello dell'avvenire e della condivisione, la cosiddetta uberizzazione del mondo del lavoro rappresenta un ritorno a condizioni di impiego degne del 19esimo secolo, i tempi di Émile Zola: lo sostiene lo scrittore e docente francese Karim Amellal, che punta il dito non tanto contro le imprese - da sempre alla ricerca del modo per generare profitti - quanto contro la totale assenza di una risposta politica.

L'uberizzazione - ricorda Amellal in un'intervista pubblicata oggi dal quotidiano ginevrino Le Courrier - permette di mettere direttamente in relazione un cliente e un fornitore di servizi attraverso un'applicazione o una piattaforma numerica. Il settore dei taxi (dove appunto opera la multinazionale Uber che dà il nome al fenomeno) e quello delle forniture sono gli esempi più emblematici, ma il modello è applicabile ovunque: dalle banche al diritto, passando per l'economia.

«Tutta la terminologia che circonda l'economia della condivisione è positiva», spiega il 41enne attivo anche come imprenditore nel settore digitale. «Si parla di rottura, di logica vinci-vinci. La tecnologia stessa non è un problema: sono le modalità di applicazione di questa tecnologia che lo sono. Le esternalità del modello proposto sono in gran parte negative, che si tratti dei diritti dei lavoratori, del rispetto della legge o della fiscalità».

Per scrivere il suo libro «La révolution de la servitude» (la rivoluzione della servitù), pubblicato l'anno scorso, Amellal dice di essersi immerso non solo in opere scientifiche, bensì anche nei romanzi, come quelli di Émile Zola (1840-1902), il celebre scrittore che nelle sue opere ha descritto la Francia del tempo. Secondo Amellal un lavoratore a cottimo dell'epoca di Zola e un fattorino di Deliveroo di oggi godono di protezioni sociali all'incirca equivalenti.

«In entrambi i casi» - sostiene l'esperto - «ci sono persone che offrono la loro forza lavoro al miglior offerente in modo cosiddetto indipendente. Si tratta di lavoratori che non sono dipendenti e che quindi non hanno un contratto di lavoro. Si assumono tutti i rischi che di solito sono responsabilità dei datori di lavoro: non hanno un'assicurazione contro la disoccupazione, nessun congedo per malattia, nessuna assicurazione contro gli infortuni, nessun congedo retribuito e non sono organizzati collettivamente in seno ai sindacati».

«L'unica differenza è che i lavoratori uberizzati, a differenza degli operai descritti da Zola, vivono in un'epoca che ha conosciuto due secoli di conquiste sociali...», osserva il docente all'Istituto di studi politici di Parigi (SciencesPo).

Amellal non mette però sul banco degli accusati solo le cosiddette «aziende predatrici». Certo, sfruttare i lavoratori fa parte del loro modello di affari, ma alla fine questo non è veramente biasimevole: «le imprese hanno sempre cercato di individuare e sfruttare i fallimenti di un mercato per conquistarlo e massimizzare i loro profitti», spiega. «Il vero problema è la mancanza di risposta da parte del regolatore», vale a dire del mondo politico.

Lo specialista individua tre motivi per questa mancata capacità di reazione. «In primo luogo, c'è un problema di competenza e di interesse. I nostri dirigenti non capiscono il digitale, non lo praticano. Le sottigliezze dell'economia collaborativa, del microjobbing, sono al di là della loro portata. In secondo luogo, quando sono arrivati i primi attori digitali vi era un entusiasmo che li ha spinti a lasciar correre: i nuovi venuti erano visti come un progresso che non andava ostacolato. Oggi, ci rendiamo conto che attori come Google sono potenti tanto quanto degli stati e che non è facile imporre loro regole in termini di protezione dei dati, di fiscalità e altro. Infine, c'è un'innovazione discorsiva tra queste piattaforme - il loro modello di affari si basa sulla reputazione - che continua a sedurre, addirittura ad intossicare, la classe politica come pure i consumatori, che si deresponsabilizzano riguardo al destino dei lavoratori».

Ma questi lavoratori - chiede l'intervistatore - non hanno scelto liberamente e in piena coscienza la loro attività? «Il legittimo desiderio di indipendenza e autonomia viene spesso sottolineato quando si parla di economia di condivisione", risponde Amellal. "Ma quando si guarda a questo mercato, ci si rende conto che le ragioni che spingono i lavoratori ad accettare queste condizioni sono meno palesi. Non si sceglie liberamente di compilare moduli per concorsi e sondaggi tutta la notte dopo aver lavorato durante il giorno. Così come probabilmente non è molto soddisfacente lavorare come autista per 50-60 ore settimanali per un reddito inferiore al salario orario minimo in Francia. L'economia di condivisione si basa su una massa di persone non qualificate, spesso provenienti da contesti migratori o da quartieri svantaggiati. Costituisce un vero proletariato del 21esimo secolo."

«Secondo gli studi più recenti, la tecnologia digitale genera relativamente pochi posti di lavoro», prosegue l'insegnante. «Ci stiamo muovendo verso un mercato del lavoro che si sta polarizzando e dove le disuguaglianze stanno crescendo. Con, da un lato, coloro che hanno un vero lavoro e, dall'altro, i lavoratori poco qualificati e scarsamente retribuiti. Quello che mi preoccupa è che il volume delle persone sfruttate non smette di aumentare», conclude Amellal.

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