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SVIZZERA / TICINO'La primavera araba dell'università'

02.01.12 - 08:21
Intervista a Mauro Dell'Ambrogio, Segretario di Stato per l'educazione e la ricerca
Keystone (archivio)
'La primavera araba dell'università'
Intervista a Mauro Dell'Ambrogio, Segretario di Stato per l'educazione e la ricerca

BERNA - In Svizzera il mondo universitario è in continua evoluzione. Nelle ultime settimane le cronache hanno riferito di tensioni all'Università di Zurigo per l'arrivo di numerosi professori tedeschi, mentre per quanto riguarda il diritto allo studio, continua il dibattito sul finanziamento degli atenei. Il numero di studenti universitari continua a salire e c'è chi sostiene che sarebbe giusto aumentare le rette per far fronte ai fabbisogni finanziari degli atenei, ma anche per responsabilizzare di più gli studenti.

Per capire dove sta andando il mondo universitario svizzero ci siamo rivolti a Mauro Dell'Ambrogio, da quattro anni Segretario di Stato per l'educazione e la ricerca. In particolare all'ex giudice e comandante della polizia cantonale abbiamo posto alcune domande riguardanti il cosiddetto processo di Bologna, quella riforma iniziata nel 1999 che si prefigge di realizzare uno Spazio Europeo dell'Istruzione Superiore. Una sorta di comunità europea universitaria in cui è la mobilità il suo principio cardine. 

Segretario Dell'Ambrogio, lei da ormai quattro anni ricopre la carica di Segretario di Stato per l'educazione e la ricerca. Lei è stato giudice, comandante della polizia cantonale, poi è passato all'USI e nel 2008, appunto a Berna. Come si trova a ricoprire questo incarico? Quali analogie, se ci sono, esistono nel suo lavoro odierno e quello di direttore della polizia cantonale?
"Il lavoro in polizia l’ho fatto più di vent’anni fa: è cambiato un po’ anche il mondo nel frattempo. Le amministrazioni pubbliche per taluni versi sono comunque simili tra loro, anche a distanza di tempo: per tutto quanto riguarda il rapporto con la politica e l’opinione pubblica, ad esempio. Ma vi sono anche differenze fondamentali. Per citarne una, educazione e ricerca scientifica hanno bisogno di stabilità e di tempi lunghi. Non succede mai di doversi alzare alle due di notte per decidere e dirigere un’operazione urgente".

Vorrei ora porle qualche domanda in merito al "Processo di Bologna". Nel mondo accademico europeo la riforma ha sollevato molti dibattiti e vi è stata anche una certa resistenza. In Svizzera, la sensazione è che "Bologna" sia stata introdotta dall'alto, senza che vi sia stata la possibilità di poter sviluppare un dibattito democratico, che potesse coinvolgere innanzitutto gli atenei e dare voce alle critiche al nuovo sistema che giungevano dal mondo universitario. Lei non pensa che si sarebbe potuto dare più ascolto ai contrari a questa riforma e permettere un confronto utile a capire gli eventuali i rischi ai quali si sarebbe andati incontro? Non si è fatto tutto un po' troppo in fretta in Svizzera?
"Vi è una evidente contraddizione tra il sostenere che l’introduzione sia stata fatta “dall’alto”, e il dire che non c’è stato un dibattito democratico.  Visto che cambiamenti di questo genere si possono fare “dall’alto” soltanto cambiando le leggi, e che le leggi da noi sono fatte con processi estremamente democratici, consultazioni e possibilità di referendum comprese.  La verità è che la complessità del sistema svizzero ha richiesto procedure parallele di vario genere, molte delle quali sono sfuggite a chi non era direttamente in quel momento interessato. Solo qualche accenno: i principi della riforma di Bologna sono stati introdotti nelle scuole universitarie professionali (SUP), di competenza federale, tramite regolari cambiamenti di legge federale, durati anni, con tanto di consultazioni.  Per le università invece, di competenza dei cantoni, dove la legge cantonale prescriveva cose non conformi a Bologna, essa è stata adeguata con processi democratici nel cantone. La maggior parte dei cambiamenti rientrava però nell’autonomia che la legge cantonale riconosceva all’università (così p.e. in Ticino), che ha quindi deciso secondo le proprie regole interne, di regola pure parecchio democratiche, almeno per quanto concerne il consenso dei professori.  Di fatto il consenso è stato larghissimo, visto che tutte le decisioni (di  parlamenti, di conferenze dei rettori, di organi interni alle diverse università) sono andate nella direzione di aderire.  D’altra parte ci si può difficilmente immaginare che le università svizzere, internazionalizzate come erano e sono, potessero fare eccezione rispetto ad un processo in corso nell’intero continente. Va poi detto che il processo di Bologna si basa su alcuni principi contenuti su una sola pagina formato A4, che lasciano ampia libertà di interpretazione, e che in effetti ogni paese e ogni università interpreta un poco a modo suo.  Se posso fare un paragone irriverente, Bologna è stata un po’ come la Primavera Araba, una stagione di consenso generale su alcuni principi, e gli attuali critici del “come è stata introdotta” mi fanno pensare a un Egiziano che, scontento di come saranno andate le cose nel suo paese, si chiederà tra qualche anno quanto i cambiamenti avvenuti nel 2011 fossero stati “dall’alto” o “democratici”.  La risposta sarà oziosa: semplicemente nessuno avrebbe potuto far andare le cose diversamente.  Il processo è in ogni caso in corso da quindici anni, e non ancora finito: parlare di fretta…"    

Quanto è costato al nostro Paese, in termini finanziari, fino ad oggi, il processo di Bologna?  
"Difficile fare una stima dei costi. I cambiamenti amministrativi in sé, forse qualche decina di milioni.  Ma molto più incisive sono le conseguenze strutturali: ad esempio il passaggio al sistema 3+2 anni può avere da una parte prolungato la durata degli studi di base, rispetto alla precedente licenza in 4 anni (ma non tutti  finivano in 4 anni …), dall’altra permette l’uscita sul mercato del lavoro – almeno in talune discipline - con un titolo di studio già dopo 3 anni. La durata degli studi a sua volta non incide in modo lineare sui costi, visto che all’università non si compongono classi con un numero fisso di allievi, né assumono professori in funzione del numero di classi. I costi sono aumentati in questi ultimi dieci anni anche per fare fronte all’aumentato numero di studenti, ma non si può dire che l’accresciuto numero di studenti universitari sia una conseguenza del processo di Bologna: semmai piuttosto della generale tendenza a scegliere la via degli studi.  Vi sono poi effetti indiretti, non previsti ma importantissimi, indipendentemente dai costi: il fatto che gli studi nelle scienze umane e sociali sono stati più strutturati ha fatto aumentare il numero di studenti nelle scienze naturali e tecniche, rese in precedenza poco attrattive dalla necessaria strutturazione dei loro curricoli.  E la Svizzera e l’Europa hanno bisogno di un maggior numero di studenti nelle scienze naturali e tecniche … Se non altro, per questo, viva Bologna!"

I critici sostengono che questa riforma necessita di continui aggiornamenti e aggiustamenti, che causano un incremento di personale amministrativo e, in generale, uno sforzo finanziario non indifferente. Lei come risponde a queste osservazioni?
"Ogni importante riforma ha bisogno di aggiustamenti successivi, e ben vengano se servono a migliorare la qualità. La crescita eccessiva della burocrazia nelle università è un rischio imminente ad ogni organizzazione, specialmente pubblica, e preesisteva al processo di Bologna.  Una volta i congressi scientifici erano organizzati dai professori con l’aiuto volontario di moglie e figli; oggi si sono moltiplicate le segreterie e i servizi specializzati per ogni genere di evento da organizzare. L’amministrazione deriva non tanto dalla complessità delle regole generali (come quella che i moduli di insegnamento devono essere quantificati con un sistema di crediti: principio di per sé semplice e ovvio e fatto per facilitare i riconoscimenti reciproci di equivalenza in caso di mobilità), ma dal modo in cui ogni università le applica, e anche dall’atteggiamento degli studenti (una parte almeno), più attenti a “contabilizzare” crediti per ogni evenienza, e a far valere minutamente diritti veri o presunti, che a studiare quel che davvero li interessa. Cambiando da un fenomeno di élite a un fenomeno di massa, come avvenuto negli ultimi decenni, lo studio universitario si burocratizza per sua natura, qualunque siano le regole e le riforme".
 
C'è chi sostiene che "Bologna" non abbia centrato l'obiettivo, cioè quello di promuovere la mobilità e la internazionalizzazione degli atenei. Lei cosa ne pensa? Bologna ha raggiunto il suo scopo?
"La mobilità degli studenti da un paese all’altro è migliorata ed è in continuo miglioramento, lo confermano parecchi studi già fatti. Un giudizio definitivo si può dare soltanto a lungo termine. Ma va anche detto che l’obiettivo del processo di Bologna non era soltanto quello di favorire la mobilità degli studenti. Grazie ad esso si sta affermando in Europa e dintorni una sorta di linguaggio comune, per definire in modo comparabile – se non proprio unitario, ma non era questo lo scopo – cosa è una università, come viene verificata la sua qualità, quali sono i livelli dei titoli di studio rilasciati, cosa appartiene alla formazione di base e cosa alla formazione continua, come sono strutturate le funzioni e le carriere accademiche, ecc. E il tutto su base volontaria da parte di più di quaranta stati sovrani e delle migliaia di università operanti in essi, senza alcuna burocrazia centrale. Se facciamo il confronto con i tentativi fatti in Europa di armonizzare regole e comportamenti in altri settori, seppure oggettivamente più difficili (dal mercato unico alla moneta …), credo che il processo di Bologna va riconosciuto già ora come un successo, necessariamente imperfetto, ma di portata storica". 

A Zurigo negli ultimi mesi vi è qualche scintilla nei rapporti tra professori svizzeri e tedeschi. E' stato espresso il timore che la filosofia e la mentalità svizzere vengano spazzate via dal carrierismo, dallo spirito di caserma prussiano e dal nepotismo di cui sarebbero accusati i tedeschi a Zurigo, compromettendo la possibilità ai professori svizzeri di poter crescere e concorrere ai concorsi ad armi pari con i colleghi tedeschi. Lei se la sente di dare una sua opinione in merito a questa polemica? Quanto è concreto il pericolo di cui temono i professori svizzeri?
"Mica tutti i Tedeschi sono Prussiani, quelli della Germania del Sud sono molto simili agli Svizzeri per mentalità  … Scherzi a parte, abbiamo verificato che il numero di professori con passaporto svizzero che insegnano in Germania è superiore a quello dei professori con passaporto tedesco che insegnano in Svizzera.  E’ vero che nei concorsi per professore nelle nostre università mancano talvolta candidati svizzeri almeno altrettanto qualificati dei concorrenti stranieri, ma il motivo principale è la concorrenza del mercato del lavoro privato.  Gli svizzeri con una solida formazione scientifica di base, e con buone attitudini generali, trovano facilmente posti ben remunerati nell’economia o nelle amministrazioni pubbliche all’uscita dall’università.  A restare nelle università, disposti a lavorare come assistenti nella ricerca, in situazione precaria e relativamente poco pagati, senza la certezza di poter accedere definitivamente a una carriera accademica con il rango di professore, sono in certe discipline soprattutto gli stranieri.  Avremo solo Svizzeri come professori nelle nostre università il giorno che la nostra economia andrà peggio, con pochi posti offerti ai giovani laureati e con bassi salari, ma nessuno se lo augura".

L'ultima domanda riguarda il mondo accademico ticinese. Vorrei chiederle semplicemente in che modo l'Usi e la Supsi si siano integrate nel tessuto economico e sociale del Ticino e se non ritiene necessario ulteriori miglioramenti.
"Non mi trovo nel migliore osservatorio per poter giudicare questo aspetto, ma mi pare che si è sulla buona strada.  Si tratta comunque di un processo a lungo termine".

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