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L'OSPITEViolenza sul posto di lavoro. Come arginarla?

21.01.14 - 08:51
di Massimo Picozzi
Ti Press
Violenza sul posto di lavoro. Come arginarla?
di Massimo Picozzi

I crimini violenti sono in diminuzione, nonostante la copertura mediatica suggerisca l’esatto opposto. Chi si prendesse la briga di leggere il bellissimo - e ponderoso - saggio di Steven Pincher, Il declino della violenza (Mondadori, 2012), ne potrebbe comprendere i motivi profondi. C’è tuttavia un dato che personalmente mi preoccupa, e riguarda i gravi fatti che accadono sul posto di lavoro; è vero, alle nostre latitudini si tratta di episodi tanto estremi che eccezionali. In altre parole, e per fortuna, non raggiungeremo mai i livelli degli Stati Uniti, dove l’omicidio è la seconda causa di morte sul lavoro; ma questo non può e non deve rassicurarci, perché il problema della violenza sta crescendo, tra la preoccupazione di chi capisce e l’imbarazzo di chi vuole solo nascondere, fingendo che frustrazione e rabbia non riguardino l’ambiente dove lavora. A tutti noi è capitato di arrabbiarci perché trattati con sufficienza da un collega, oppure offesi dalle decisioni miopi e unilaterali di un capo insensibile. Chi studia il fenomeno sa che nel ventaglio di emozioni, che va dal semplice fastidio allo scoppio di una collera irrefrenabile, proviamo una qualche forma d’irritazione sul lavoro almeno dieci volte al giorno. La novità degli ultimi tempi è che fatichiamo sempre piú a controllarci, a gestire il risentimento e la frustrazione; piuttosto li esprimiamo attraverso performance ridotte, minacce e molestie, atti di sabotaggio, aggressioni verbali e fisiche; con inevitabili ricadute sul clima emotivo, sulla produttività e sul bilancio dell’azienda, in un circolo vizioso e distruttivo. Naturalmente la questione è complessa ed è impossibile identificare una sola ragione che ne spieghi l’origine; certo la crisi economica gioca un ruolo decisivo e la tanto invocata capacità di accettare e vivere la flessibilità, implica una grande capacità di adattamento, che a sua volta poggia sulla sicurezza di sé e l’autostima. Merci rare di questi tempi. Chi rischia di perdere il posto, sa molto bene quanto sia difficile trovare una nuova sistemazione, simile per mansioni, soddisfazione e compensi. Le statistiche dicono, infatti, che l’ottanta per cento dei lavoratori ci riusciva negli anni Sessanta e Settanta. La percentuale è scesa al cinquanta per cento nei primi anni Ottanta, al venticinque per cento agli inizi degli anni Novanta, per arrivare al dieci per cento alla fine del secolo scorso e peggiorare ancora nel terzo millennio. Se il messaggio che passa è che ognuno rischia di essere sfruttato e poi accantonato, ne deriva un senso di alienazione, la perdita di qualunque forma di attaccamento e fedeltà all’azienda; e insieme si alimenta uno dei moderni paradossi: amiamo il nostro lavoro, ma finiamo per odiare la struttura, le regole e l’ambiente dove lo svolgiamo ogni giorno.

Poi, accanto ai mutamenti macro e micro-sociali, c’è sempre il fattore umano. Non sono pochi i casi in cui un dipendente con difficoltà emotive e scarsa stima di sé guarda al posto di lavoro come al supporto emozionale di cui ha bisogno. La percezione di non essere compreso e apprezzato, dolorosa per tutti noi, può avere effetti devastanti su chi vive il lavoro come l’unica cosa importante della propria vita. Molti riescono a gestire le proprie emozioni, altri non ce la fanno. Può dipendere da uno sfortunato assetto genetico o dalla storia familiare e personale; anche lo stile di pensiero influenza la predisposizione alla rabbia: dare per scontate le cose positive, enfatizzare le negative, essere eccessivamente perfezionisti, sono tutte condizioni che possono innescare sentimenti di rabbia. Per disinnescare la rabbia prima che si trasformi in un problema, non basta ricorrere a sistemi di sicurezza e sorveglianza; va invece garantito a tutti il giusto diritto di lavorare in un ambiente sicuro e sereno. Dopo un attento processo di selezione con la raccolta di tutte le informazioni personali utili, le aziende dovrebbero adottare una forte e chiara policy aziendale, che non tolleri nemmeno le forme “minori” di violenza, le piú frequenti e meno clamorose; e di conseguenza preveda sanzioni sicure e significative per i comportamenti inappropriati, stimolando insieme una cultura della fiducia e del rispetto tra dipendenti e manager, come pure nei riguardi dei clienti e di chiunque entri in contatto con l’azienda stessa. Esistono poi segnali d’allarme che devono essere tenuti in considerazione, comportamenti suggestivi del rischio che un collega o un dipendente sta per perdere il controllo e diventare violento.

Va però aggiunto che, qualunque sia il motivo dell’irritazione, noi per primi possediamo una grande abilità nel minimizzare le nostre colpe, nel liquidare la nostra responsabilità per comportamenti che è generoso definire inutili. Ecco ad esempio alcune condotte che siamo pronti a banalizzare, nell’errata convinzione che non producano danni: evitare di passare una telefonata ad un collega, o nascondergli delle informazioni necessarie; non riportare un problema e permettere che peggiori; darsi malati, arrivare tardi in ufficio o alle riunioni e lasciare il posto in anticipo; rifiutarsi di accettare un compito o di aiutare un collega; apparire superimpegnati quando non lo siamo, o rallentare un lavoro quando è necessario accelerare; alimentare pettegolezzi su colleghi o superiori, o lamentarsi della loro incapacità. Possono sembrare piccole cose, ma è su questi particolari che si fonda una cultura del rispetto, la sola in grado di contenere il profondo disagio di una crisi che continua a mordere ferocemente.

Massimo Picozzi
da sensocivico.ch

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