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LUGANOScarpati: "Sul palco mi riscatto dalle trappole della tivù"

04.02.14 - 07:00
A Lugano con "Oscura Immensità", l'attore confessa il suo rapporto controverso con la fiction e il personaggio cui deve la notorietà.
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Scarpati: "Sul palco mi riscatto dalle trappole della tivù"
A Lugano con "Oscura Immensità", l'attore confessa il suo rapporto controverso con la fiction e il personaggio cui deve la notorietà.

LUGANO - Non ci sono vittime e neanche colpevoli, per quanto l’uomo cerchi di trovare un posto agli uomini: dentro una storia verosimile sul palco o nella vita che sa esser più feroce. All’uscita del teatro Cittadella, da domani sera fino a giovedì, ci si porta via questo insegnamento un po’ scontato e unico, nella sua ammissione di inadeguatezza: tagliati così netti, bene e male sono solo una bugia sociale. Giulio Scarpati, protagonista assieme a Claudio Casadio di “Oscura immensità” per Luganoinscena, li chiama con un eufemismo meno duro: "semplificazione", o implicita rinuncia alla verità del mondo. "I problemi sono sempre più complessi di come vorremmo semplificarli per mettere a posto la nostra coscienza – riflette- I giudizi più categorici sono sempre i più fuorvianti".

Delitto, castigo, perdono, vendetta: temi ancestrali che convivono senza prevalere l’uno sopra l’altro, nelle parole che i protagonisti si gettano addosso da due anni, forti del successo di pubblico di un’opera tratta dal romanzo di Massimo Carlotto per la regia di Alessandro Gassman. "Il testo mi ha intrigato molto fin da subito. È una storia forte, dai personaggi tratteggiati in chiaroscuro. Non eravamo così convinti della partecipazione emotiva del pubblico. Evidentemente è interessato a storie diverse e il teatro è il luogo ideale per svilupparle. Qui il pubblico ascolta, partecipa, si lascia coinvolgere; la parola è più profonda, riflessiva, le domande non sono mai facili e banali come quelle che si ascoltano ormai ogni giorno a margine delle storie di cronaca". Nella finzione, Scarpati è marito e padre senza più una moglie e un figlio, uccisi da un uomo che, ormai in fin di vita, dal carcere gli chiede perdono.  Ma alla fine il giudizio si confonde, ruoli e peccati si sovrappongono fino a scambiarsi il posto.

Scarpati, lei si sente più vittima o carnefice?
"Sul palco io sono la vittima e la vittima, da che mondo è mondo, è condannata a soccombere. L’interesse mediatico va tutto sul carnefice, la vittima resta lì, come avvolta dentro alla spirale del suo trauma, e non riesce ad andare oltre. Vive la perdita assoluta di futuro e la rabbia che ha dentro, se non trova strumenti per sfogarsi, finisce per travolgerla. Molte volte mi sono domandato: se capitasse a me, come mi comporterei? Metabolizzerei il dolore? Riuscirei ad accettarlo?".

Si è risposto?
"Non c’è risposta. Solo la realtà può dare conferme. Teoricamente vale tutto. Voglio dire, è facile non essere razzisti se il problema è lontano da te. In fondo è proprio questo il bello del nostro mestiere: interpretare un personaggio e provare comprendere tutte le sue ragioni, anche quelle meno scontate, per renderlo come realmente sarebbe".

Crede di esserci riuscito?
"Il teatro ha posto il quesito: sta allo spettatore poi aprire il dialogo, con se stessi o dentro la comunità, e valutare ciò che è giusto o sbagliato. Molto spesso ci sorprendiamo a pensare “Che mostri” e non ci accorgiamo che anche noi, nel nostro piccolo, lo siamo. Poi, certo, non volevamo fare sociologia. Abbiamo preso un caso di cronaca e l’abbiamo portato in scena".

Si dice che troppa letteratura, oggi, prenda spunto dalla cronaca; che si stenti a raccontare storie se non attingendo alla realtà. Il teatro corre lo stesso rischio, se rischio lo considera?
"Oggi la cronaca è appannaggio più della televisione che di cinema o teatro. Qui è presente in maniera prepotente, con talk show che parlano ininterrottamente di un fatto, lo riproducono addirittura con i plastici. Tutto nasce da un fraintendimento: che l’opinione pubblica abbia bisogno assoluto di sapere, quando neanche i processi, a iter concluso, possono dare la certezza che si sia scandagliato tutto".

La cronaca è una risorsa o un limite, una rinuncia alla creatività?
"Dipende dall’uso che ne viene fatto. Il teatro sì, usa la cronaca, ma come spunto per trattarla in maniera universale".

Scarpati, è sempre così critico nei confronti della tivù, lei che ne è così debitore?
"
Critico in particolare verso l’intrattenimento televisivo. Per me la tivù è arrivata per ultima, dopo il teatro e il cinema. Ed è arrivata, non lo nego, come un pocker d’assi. Ha cambiato la percezione di me come attore. La tivù dà popolarità: ma mi ha dato anche la paura di essere identificato con un personaggio. Questo è stato il mio disagio d’artista. Con “Oscura immensità” ho avuto l’occasione di rimettermi in discussione".

Un ripudio?
"“Un medico in famiglia” e Lele Martini mi hanno dato tanto, ma non volevo diventasse una storia infinita. È stata una fiction innovativa, ottimistica ma realistica, insito: però i personaggi si esauriscono, i percorsi si esauriscono. È una questione quasi fisiologica. Mi sentivo un po’ intrappolato, era il momento di cambiare. La ricerca di personaggi diversi, la varietà dei ruoli e delle esperienze è fondamentale nella carriera di un attore. Questa non è un’abiura: è andare avanti".

Il pubblico non la costringerà a ripensarci?
"Pensiamo sempre che il pubblico sia sovrano, ma non deve essere così. La tivù di una volta dava orientamento, guidava il pubblico costringendolo a seguirla. Ha fatto conoscere grandi romanzi, ha avuto una funzione educativa. Ora, nella rincorsa all’auditel, va incontro al gusto senza curarsi di abbassare il livello. Sceglie il consueto invece del desueto. Dalla tivù il pubblico deve imparare, invece".

Lei parla di una tivù che assolva il ruolo che oggi appartiene al teatro. Pensa sia ancora possibile?
"Perché no. Pensiamo alle fiction americane o inglesi: sono fatte benissimo, sono complesse, ardite. Non dico che si debba fare solo questo: ma si deve fare anche questo, e incontrare sensibilità differenti, orientare in tante direzioni. Non voglio fare il professore, ma credo sia questa la strada da battere. Oggi i giovani seguono poco le fiction tv: ma ci siamo accorti che guardano le serie americane? Ci siamo domandati il perché?".

Perché?
"Probabilmente non riusciamo più a rappresentarli in una visione che sia originale. La fiction non dev’essere solo un fenomeno italiano, ma un’opportunità internazionale. Pensiamo a Montalbano, che ha travalicato i confini nazionali: è il caso più eclatante dove la qualità incontra il gusto del pubblico. L’errore che dobbiamo smettere di fare è assecondarlo al ribasso".

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