«Non mi sono mai immaginato il mio ultimo giorno di vita»

Ironia e un po' di brivido. Sono gli ingredienti di "Mi hanno detto che morirò martedì", un giallo singolare e divertente pubblicato dal giornalista Daniele Oldani.
LUGANO - Ironia e morte a braccetto. Con uno sguardo su un Ticino caratterizzato in più sfumature. Sono gli ingredienti di “Mi hanno detto che morirò martedì”, romanzo (auto) pubblicato recentemente da Daniele Oldani, giornalista di Rete Uno.
Tu credi che la vita di ognuno di noi abbia già una data di scadenza?
«Credo che gli esseri umani debbano vivere delle prove: così come c’è la prima, c’è anche l’ultima».
Che rapporto hai con la morte?
«Tutto sommato sereno. Non è qualcosa che possiamo evitare e, forse, ha ragione chi sceglie di vivere preparandosi in modo positivo a questo incontro».
C'è stato un lutto nella tua vita che ti ha segnato particolarmente? E perché?
«Ti rispondo sicuramente pensando a mia madre che non è più con me dal 2018. Anche se sono passati sette anni ogni tanto mi capita ancora di pensare: “tra poco la chiamo, così facciamo due chiacchiere”».
Sorridere della morte indigna ancora molto o comunque incute timore. Secondo te per quali motivi?
«“Mi hanno detto che morirò martedì” è un libro che porta in scena, come figura preminente, l’idea di una morte ravvicinata. Ma non è di Lei che questo libro sorride: il taglio ironico che aleggia nel romanzo è tutto merito di noi viventi, delle nostre fragilità, delle nostre fissazioni, delle nostre inutili complicazioni. Sorridere della morte oggi è ancora un esercizio molto complicato perché si corre sempre il rischio di scherzare con le persone sbagliate».
Un aggettivo per definire questa tua opera letteraria.
«Aggiungo un sostantivo e ti rispondo: "giallo divertente"».
Credi che ci sia un "dopo", un aldilà?
«Il mio libro stimola il lettore a riflettere non solo sul visibile ma anche sull’invisibile. Siamo un progetto di vita perfetto per non andare oltre il nostro aspetto terreno. Mi piace pensare che ci sia sicuramente qualcosa “dopo”. Forse ancora molto connesso a questo lato del vivere».
Se tutti dobbiamo in fondo morire perché corriamo come pazzi per inseguire successi e traguardi effimeri?
«Faccio fatica ad accettare l’idea di sprecare in questioni inutili gran parte del nostro tempo. E questa è una sfida che mi stimola molto».
Di fronte alla morte siamo davvero tutti uguali?
«Credo di sì. È un’esperienza che tira una riga immaginaria in fondo alla nostra esistenza e ci consegna in modo democratico a un altro stato dell’essere».
La morte può essere ingiusta. C'è chi muore tranquillamente nel sonno e chi invece dopo una lunga e travagliata malattia. Cosa ne pensi? «La vita è così in ogni suo aspetto. Ci sono persone che faticano tutta la vita e altre che non fanno nulla di nulla. C’è chi visita tutti i Paesi del mondo e c’è chi non è mai uscito dalla propria città o regione. Per non parlare dell’amore: c’è chi vive cento storie e chi nemmeno una».
Ti sei mai immaginato l'ultimo giorno della tua vita?
«A essere onesto no. Però mi riprometto da molti anni che prima di morire dovrò leggere tutti i libri che fanno parte della mia libreria. E per fortuna ne ho ancora moltissimi».
Se qualcuno dovesse dirti: "morirai martedì prossimo" come spenderesti i tuoi ultimi giorni?
«Se dovessi morire martedì il tempo a disposizione sarebbe troppo limitato per fare quelle cose meravigliose che tutti immaginiamo, tipo fare il giro del mondo. Credo che, molto più semplicemente, organizzerei una bella cena, inviterei i miei migliori amici e farei notte a scherzare e a contarcela su».
Nel tuo romanzo c’è una sorta di cortocircuito. Il tuo personaggio, la mattina si sveglia e ti ascolta alla radio. Perché questa scelta?
«Perché volevo rendere la magia della radio una delle protagoniste della storia. Mi piaceva in questo mio primo lavoro di narrativa partire dal mio mondo, da una realtà che conosco bene».
Dal linguaggio radiofonico alla scrittura il passo è breve?
«Meno di quello che si possa pensare. Cambiano le modalità, la forma, i dettagli. Ma la sostanza, quella che vede un essere umano comunicare con un altro essere umano, non cambia».



