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LUGANO

Conciati per le feste: con Capossela è tutta un'altra musica

Approda allo Studio Foce (il 9 e 10 febbraio, entrambe le date sold out) il tour del cantautore venerato da critica e pubblico
Foto Imago
Conciati per le feste: con Capossela è tutta un'altra musica
Approda allo Studio Foce (il 9 e 10 febbraio, entrambe le date sold out) il tour del cantautore venerato da critica e pubblico

LUGANO - Uno spettacolo fatto di canzoni che celebrano l’anima della festa, dove il giubilo si concede a tutti i suoi principali elementi, dal trambusto agli abbracci, dalle lacrime di gioia alle redenzioni di spirito.

A officiare il rito-concerto di scena allo Studio Foce il prossimo 9 e 10 febbraio (entrambe le date da tutto esaurito) c'è Vinicio Capossela, il cantautore, polistrumentista e scrittore venerato da quasi tutta la critica e totalmente invece da un pubblico di "fedeli" la cui componente più ortodossa lo segue dal lontano 12 ottobre del 1990, quando uscì il suo primo disco “All'una e trentacinque circa”.

Trentaquattro anni fa veniva al mondo un disco - denso di atmosfere fumose, locali abitati da donne e jazzisti squattrinati - che hai anche definito di «dispiaceri e demoni che passano dal fegato». Oggi come vanno le cose?

«Beh diciamo che abbiamo dato anche degli altri organi. La storia del fegato è interessante perché da un lato uno che si fa un fegato così vuol dire che si intossica molto, ma non per gli alcolici, per i litigi o le cose affannose della vita, e allo stesso tempo però il fegato è anche l'organo che si usa per dire quando uno ha coraggio, un coraggio proprio forte, dunque ha fegato. Il fegato c'entra poi però anche con la bile e la bile è un'altra cosa fondamentale nella musica, perché è la bile nera e sta alla base di tante musiche di patimento, di assenza, di melanconia. La stessa melanconia è una parola che significa quello, bile nera, quindi insomma allo stesso tempo farsi venire la bile significa appunto anche lì dimezzarsi. Ci sono troppe cose che passano dal fegato, quindi non soltanto i demoni e i dispiaceri, ma sicuramente ecco io credo che col senno di poi quel disco era un disco prebiotico e lo era anche dal punto di vista del fegato, da cui sono transitate molte cose. D'altronde ero veramente molto giovane a quel tempo, le canzoni sono state scritte a ventidue/ventitré anni e ne avevo ventiquattro quando è stato pubblicato il disco. Erano proprio canzoni di una parte iniziale della vita, una giovinezza che però non la celebrava affatto, dei pezzi dove si invocava una vecchiaia precoce. Può valere come esempio anche quel pezzo di Dylan "My Back Pages" che diceva "I was so much older then, I'm younger than that now". Insomma, ero vecchio allora e adesso sono molto più giovane».

Quindi il Capossela di oggi si sente così e si ritrae un pochino dalla cupezza?

«Il grande Renzo Fantini (ndr. produttore di Paolo Conte che lo scoprì) quando mi vedeva nelle prime foto che facevamo mi diceva che non c'era bisogno di aspirare a essere più vecchi della propria età. E anche un mio caro cugino, Franco Badia, bravissimo fotografo, mi fece dei ritratti dove anche se avevo solo vent'anni veniva fuori quell'aria un po' tenebrosa, ma era più che altro quel genere di atteggiamento un po' dandy alla Oscar Wilde, con cui non ci vogliamo paragonare. Però secondo me è un atteggiamento che in gioventù si può avere quando si è molto presi da sè stessi e dalle proprie ombrosità. Parlando ancora di Oscar Wilde è quando c'è stata la caduta vera che abbiamo trovato l'umano, cioè quando è finito in carcere, quando è finito al fondo della società, all'abiezione. Ci sono due libri veramente toccanti che spiegano questa condizione: il "De Profundis" e "La ballata del carcere di Reading". Lì ritrovi questo sentimento di compassione per l'altro, non c'è più soltanto l'ego. E con il passare del tempo ci si inizia a occupare dell'umano in senso più ampio. Comunque quando trentaquattro anni fa cantavo "Una giornata senza pretese" ero realista».

Poi sei passato al "neo-realismo" festoso del Fuori Orario dove da vent'anni suoni nel periodo delle feste di Natale e viene fuori un disco come “Sciusten Feste”.

«Allora, perlomeno musicalmente, di tutti i dischi che sono seguiti a "All'una e trentacinque circa", "Sciusten Feste" non dico in continuità ma in assonanza è esattamente come il mio primo disco. Sono due dischi che sono stati registrati con una band, cioè dei musicisti, non con tantissime partecipazioni e solo qualche ospite. Ci sono gli strumenti propri dello swing, quindi la batteria, il contrabbasso, dei bei fiati, la coppia di sassofoni e quindi musicalmente suona abbastanza in continuità con quel mondo e in quel mondo trae anche la sua origine, naturalmente da un certo amore per un certo tipo di swing e di jazz particolarmente udito anche nell'ultimo disco di Louis Prima o gli italo-americani swing come Lou Monte».

La festa cui lo spettacolo che vedremo a Lugano invita, entra di diritto nel messaggio di cui questo concerto si fa portatore: sopportiamo insieme. E qui vengo al pezzo con cui aprivate sempre i live del Fuori Orario e che ascolteremo anche al Foce, mi riferisco a "Sopporta con me", tratto da un inno religioso del 1820 dell'innodista scozzese Henry Francis Lyte? Come avviene la scoperta di questa composizione?

«L'ho scoperto come molti in un disco di Thelonious Monk, in una versione che è soltanto una corale per quattro sassofoni e quindi dove non ci sono neanche le parole. Però ha una forza tale quella che non è la melodia ma è proprio l'armonia. Perché è una corale, quindi insomma è veramente una cosa che anche senza il testo ti dà già. Come succede in tutta quella musica un po' spirituale: a me piace molto il rapporto che c'è tra la musica nera e anche anglo-americana con un certo tipo di spiritualità che per esempio nel mondo cattolico non esiste. Cioè il mondo cattolico ha generato sì meravigliose pagine di musica nell'ambito della musica classica, ma poi non c'è nulla che ti verrebbe da cantare per farti coraggio. Ecco, invece nel mondo anglosassone questa cosa è molto presente e credo che venga anche da un rapporto diverso con il racconto religioso, diciamo così non dico con Dio ma perlomeno con la Bibbia. La grande rivoluzione protestante è stata quella di togliere l'intermediazione e avvicinarsi veramente a questo conforto. L'aneddotica comunque su questo brano il cui testo è stato scritto da un mio carissimo amico, Jacopo Leone (autore di tutte le copertine da "Canzoni a manovella" in avanti), dice anche che mentre il Titanic andava a fondo l'orchestrina suonava proprio "Abide with me"».

Che significa "restami accanto".

«Il testo di Jacopo è completamente diverso, una rilettura neanche troppo fedele all'originale dove c'è quasi un invito al Signore a sopportare insieme e a scendere dal seggio e giudicarci, visto che ci hai messo in questo mondo. È un invito non soltanto al Creatore ma credo anche a chi ti è vicino, insomma, a sopportare insieme: almeno questo è il senso che gli abbiamo voluto poi dare noi nel nostro concerto. E perché le storie di Natale, entro cui questo brano si inserisce, alla fine sono sempre storie dove spesso, almeno quelle più riuscite, quelle che ci toccano di più e ci commuovono, sono storie dove comunque si raschia un po' un fondo di umanità. E lo si trova anche nel celebre "Canto di Natale" di Dickens: quale è la grande cosa? Che anche un uomo così inasprito, irrigidito, con una scorza così, che non soltanto non festeggia il Natale ma si pone fuori dal consorzio umano, al fondo di tutto afferma l'umano, non dico la fraternità, ma perlomeno sa di umanità».

Quali sono le cose che sopportano con te? E quindi gli appigli della vita cui tendi?

«Sicuramente le buone letture sono un appiglio, la buona musica è un appiglio, ma soprattutto i momenti di affermazione dell'umano, di umanità, il ricevere una gentilezza inaspettata. Io credo che c'è un gran lavoro da fare per riuscire a essere vivi tra gli uomini, cioè tra gli esseri umani e nel mondo. Non sono credente, però allo stesso tempo credo che davvero certi libri, certe immagini, hanno generato un senso del sacro e racconti e parabole straordinarie. Da non credente non mi fermo al fatto che veramente che ne so Gesù Cristo sia apparso i suoi discepoli e poi sia scomparso e qualcuno gli abbia detto «no, fermati», però quell'immagine è così simbolica e così allegorica che ci dà l'occasione magari di scrivere un pezzo che obiettivamente non risolve nulla. Però in alcuni momenti dell'esistenza ti dà un livello, uno strato di profondità. Io credo che tutta l'arte, il racconto, la musica sono semplicemente uno strato in più che abbiamo nel sensibile».

Nel sensibile e nella realtà ci sono anche le guerre dei nostri giorni: qualcuno diceva che "la guerra è il massacro di migliaia di persone che non si conoscono per gli interessi di poche persone che si conoscono ma che non si massacrano". Chi le ordina la sera torna in salotto a tartine e champagne e forse discute di futuri trattati di pace. Tu hai dedicato delle canzoni al tema della guerra.

«Nel disco precedente, nella canzone "Gloria all'archibugio", dò la parola ad Ariosto che già nel 1522 sull'avvento dell'arma da fuoco prefigurava quello che sta accadendo nel nostro tempo: uccidere sempre in maniera più personale e a distanza. Come avviene con i droni. L'evoluzione della capacità distruttiva raggiunto con l'apice dell'investimento economico. Ho descritto l'orrore della guerra in una ballata - "La crociata dei bambini" - con un testo di Bertold Brecht da lui scritto in Polonia. Muoiono di fame, di stenti, di freddo, cercando di fuggire dalla guerra. Come quello che vediamo nei conflitti di oggi».

Hai portato nelle tue canzoni un po' di tutto, dai Bukowski di provincia ai perdigiorno sudamericani, dalle donne partigiane ai bambini ucraini sotto le bombe: a un certo punto però tu li abbandoni per passare al prossimo pezzetto di vita da raccontare. Quando ti volti indietro hai nostalgia dei tuoi personaggi?.

«Certi personaggi si abbandonano naturalmente, perché la vita ci pensa da sè e la nostalgia la riserverei alle persone che se ne sono andate, a tutti quelli che sono partiti per la grande tournée. Il tempo non è gentile, mi suggerì un verso un giorno Vincenzo Mollica. L'altro giorno mi ha mandato un vocale per dirmi che non solo non è gentile ma è anche un vero figlio di una mignotta. Ma certo anche perdere un locale come il Florida che abbiamo abitato genera un senso di nostalgia. Poi credo che con il passare del tempo andiamo, volenti o nolenti, verso una condizione in cui si lasciano andare, un po' come la mongolfiera per continuare a stare in aria, le cose. Insomma, butti via sempre più cose. Ed è anche un bene abbandonarle. Poi le canzoni hanno un grande vantaggio, che sono proprio immateriali e che quindi appesantiscono poco: avere a deposito tutte le parti dell'esistenza nelle canzoni proprie, ma anche soprattutto nelle canzoni degli altri, è sempre un bellissimo icloud dei propri sentimenti. Comunque una canzone che dà la sensazione di portarsi dietro un po' tutto quello che la vita ti ha riservato finora è "Il tempo dei regali", canzone a strascico, quindi veramente rivedi quello che è stato finora ed è una canzone che sostituisce alla nostalgia la gratitudine. Però questa è un'evocazione. Invece la canzone che di per sé, cioè nel suonarla, ha qualcosa che va un po' oltre, è "Ovunque proteggi"».


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