
A colloquio con il grande attore italiano Umberto Orsini, che stasera riceverà il Castello d'Onore della 37esima edizione di Castellinaria
BELLINZONA - "Trifole. Le radici dimenticate" è uno dei film più attesi della 37esima edizione di Castellinaria Festival del cinema giovane, in programma fino al 23 novembre a Bellinzona.
Il film diretto da Gabriele Fabbro sarà proiettato lunedì 18 novembre alle 20.30 al Mercato Coperto di Giubiasco. Sarà l'occasione per consegnare il Castello d'Onore a uno dei protagonisti, il grande attore italiano Umberto Orsini. Lo abbiamo intervistato.
In questo film interpreta Igor, un anziano e malato cercatore di tartufi che si trova ad accogliere la nipote, cresciuta a Londra, che sta vivendo un momento di difficoltà. È un personaggio che sembra uscito dalla penna di Cesare Pavese, che ha una consapevolezza incrollabile del suo posto nel mondo.
«Il film è stato molto piacevole, anche pensando alle persone che ci hanno lavorato. Gabriele Fabbro, alla sua seconda esperienza con un lungometraggio, ha infuso una certa sincerità e purezza in questo approccio molto viscerale sulle Langhe e sul ricordo di suo nonno. Ha riversato le attenzioni nei miei riguardi come se fosse un omaggio a suo nonno - che ovviamente non ho conosciuto, ma ho capito quale sentimento li legasse. Quindi ho assecondato il suo desiderio di renderlo mite e con una leggera senilità, al limite dell'Alzheimer. Ho cercato d'immergermi nel territorio, nel contatto con la natura e le esigenze del vivere. Quindi la fatica di vivere, quella pavesiana. Mi è stato facile, voglio dire: quando le cose sono chiare vengono più facili».
Con la giovane protagonista, Dalia (interpretata da Ydalie Turk), c'è una differenza linguistica che però non è mai una barriera.
«Ho fortemente voluto che lei parlasse in inglese, essendo un personaggio che viene dall'Inghilterra, sarebbe stato assurdo se si fosse espressa in italiano. Nonostante sia una produzione rivolta al mercato straniero. Per il mio personaggio, invece, ho ottenuto che parlasse in italiano.
Il film tocca un tema locale molto evidente, l'impianto della monocultura della vite che modifica il volto delle Langhe. È la denuncia di come la ricerca sfrenata del denaro cerchi di spazzare via l'identità di un popolo?
«L'intento del regista è quello, così come il modo in cui voleva raccontare la vicenda. Un attore il film lo condivide e qualche volta lo subisce, non potendo intervenire nella dinamica del montaggio o di altro. Il cinema è molto diverso dal teatro, dove si è più responsabili del proprio personaggio, che si può modificare sera per sera. Ma quando ho avuto occasione di fare qualche parte importante al cinema non l'ho mai rifiutata, tanto più alla mia età. Fare un ruolo così non capita sempre, per cui ho accettato con molta gioia».
Senza anticipare troppo, è nella natura e nella famiglia che la protagonista Dalia trova quella stabilità che le mancava. Condivide questa visione?
«Sì, abbastanza. Vengo da generazioni in cui la famiglia è sempre stata il punto centrale del rapporto umano. Anche se nell'arco della mia vita ho visto famiglie perfette disfarsi oppure rivelarsi non perfette, quindi un pochettino di sfiducia nell'istituzione ce l'ho. Ma condivido il tema di fondo: la coesione della famiglia nel momento della necessità».
Lunedì le sarà consegnato il Castello d'Onore di questo festival che, come il Giffoni in Italia, è rivolto principalmente a un pubblico di bambini e adolescenti. Ha un messaggio per le giovani generazioni di spettatori?
«Sono sempre molto sorpreso, e qualche volta irritato, quando in metropolitana oppure per strada vedo le persone che non ti guardano più in faccia, ma fissano il telefonino. Tutti stanno a compulsare e non c'è più il rapporto umano, non ci si guarda negli occhi. Quindi il fatto che si vada al cinema o a teatro, e si sia obbligati ad alzare lo sguardo, è una cosa ben vista e ben voluta. Non c'è dubbio che lo smartphone abbia cambiato la nostra vita, ma è uno strumento tremendo. Ricordo i primi tempi, nei quali in treno si esibiva il telefonino come una specie di status symbol. Una volta avevo un phon in valigia e l'ho tirato fuori, dicendo alla signora di fronte: "Scusi, lei sta usando un oggetto domestico e anche io lo sto usando. Il suo mi dà fastidio, probabilmente le darà fastidio anche il mio". Non so, avrà pensato che questo signore che fa l'attore è un pazzo. Mi piace il fatto che nel film non mi raggiungono perché ho staccato il telefono, e anche la ragazza perde il suo. Le Langhe divorano lo strumento e portano l'uomo in una dimensione normale».
Il cinema e il teatro, in un'epoca come questa, potrebbero essere un'ancora di bellezza e verità in grado d'illuminare il nostro cammino?
«Non credo che abbiano questa portata taumaturgica, non sono così ottimista. Non cavalco un'utopia. C'è però, specialmente nel teatro e nelle sale cinematografiche, un senso di comunità. Come in una libreria, o una chiesa - dove tutti vanno perché riconoscono di partecipare nella stessa fede. Ovvero la fede nella bellezza, nell'ascoltare, nel vedere e nello stare insieme. In questo c'è, in qualche modo, una possibilità ottimistica di non precipitare lentamente nell'oscurità senza accorgercene».
Solo pochi mesi fa era al LAC di Lugano, dove ha riportato Ivan Karamazov. Qual è il suo rapporto con il Ticino?
«Non ho mai avuto molti rapporti se non di carattere professionale, pur essendo nato non molto lontano, a Novara, e avendoci vissuto fino a 17 anni. Quando ci sono passato mi sono sempre trovato molto bene e il LAC è un ottimo teatro, gestito da amici. C'è molta parentela tra il Ticino e l'Italia: è una sua propaggine pulita e attenta».