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Chi era il ticinese Breguet: terrorista, idealista o rivoluzionario?

LOCARNO FILM FESTIVALChi era il ticinese Breguet: terrorista, idealista o rivoluzionario?

13.08.24 - 06:30
La storia di un ragazzo partito da Minusio per cambiare il mondo, raccontata dal regista Olmo Cerri.
DV / REC
Chi era il ticinese Breguet: terrorista, idealista o rivoluzionario?
La storia di un ragazzo partito da Minusio per cambiare il mondo, raccontata dal regista Olmo Cerri.

LOCARNO - Terrorista, idealista oppure rivoluzionario: queste le etichette che negli anni sono state affibbiate al ticinese Bruno Breguet. Nessuna corrisponde alla verità. O forse tutte.

La storia di Breguet è affascinante, non solo per il mistero che avvolge la sua scomparsa, ma anche per la vicinanza geografica che ci accomuna. Il regista Olmo Cerri, attraverso il film "La scomparsa di Bruno Breguet", ha deciso di restituire la vera identità a un ragazzo che, partendo dal Ticino quando aveva 19 anni, ha intrecciato la sua storia personale con quella con la "S" maiuscola. Un viaggio di una vita alla ricerca di giustizia sociale. Nato a Minusio nel 1950, Breguet sposa la causa palestinese nel corso degli anni Settanta e Ottanta, fino ad accettare di compiere un attentato per conto del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina in Israele.

E se per ammirare il lungometraggio del regista ticinese nelle nostre sale dovremmo aspettare anche qualche settimana (a fine settembre il film sarà disponibile nei cinema ticinesi) ecco che a Locarno martedì 13 agosto verrà proiettata alle 11 un’anteprima. 

Il film ruota attorno a una domanda di fondo che sia tu che Breguet (nei suoi diari) vi ponete: “Cosa posso fare per oppormi alle ingiustizie del mondo?” Cosa significa porsi questa domanda ora?
«È una domanda importante per quest'epoca. Già gli anni in cui viveva Breguet erano caratterizzati da una serie di ingiustizie nel mondo. Una situazione che oggi si ripete: la guerra in Medio Oriente e il cambiamento climatico, la migrazione nel Mediterraneo, il conflitto in Ucraina. Tutta una serie di questioni complicate che ci passano accanto. La domanda "che impatto possiamo avere noi" è più che attuale. Trovare una risposta poi non è certo facile. Personalmente ho l’impressione che sia sempre più difficile trovare un modo per avere davvero un impatto su quanto accade attorno a noi».

Perché riproporre la sua storia proprio ora?
«Devo ammettere che si tratta di una coincidenza. Ho iniziato a lavorare a questo film sette anni fa. Quando, dopo il 7 ottobre, il conflitto israelo-palestinese è tornato sulle prime pagine dei giornali, stavamo completando il montaggio. Chiaramente questa sovrapposizione di eventi rende ancora più interessante la vicenda».

Come ha fatto un ragazzo ticinese di poco più di 19 anni a entrare in una realtà così molto più grande di lui? Il contesto di rivolte attuale potrebbe far emergere un altro Breguet?
«Si tratta di un altro periodo storico e non è una situazione replicabile. Oggi semmai si sente parlare di episodi di radicalizzazione legati all’integralismo religioso e spesso veicolati da Internet. All'epoca c'era una rete internazionale di contatti politici che potevano coinvolgere e reclutare delle persone un po' ovunque. Nell'idea di quella generazione, il concetto di doversi impegnare era molto presente. Le ingiustizie del mondo toccavano molte persone (il Vietnam, la fame in Africa, le guerre). Ma c'è di più. I militanti ticinesi dell'epoca che ho intervistato mi hanno raccontato l'impatto della televisione: il piccolo schermo portava per la prima volta nelle case la storia del mondo, creando una prossimità con le persone che soffrivano. Insomma, c’erano urgenze diverse da quelle attuali». 

Oggi la militanza è sicuramente intesa in modo diverso, però persiste la spinta a ribellarsi alle ingiustizie del mondo. Esiste un fil rouge tra quanto accadeva in quegli anni e oggi?
«La grande differenza è che quella generazione aveva la speranza che con il giusto impegno avrebbero potuto cambiare il mondo. Invece ho l'impressione che oggi sia molto più difficile credere davvero di poter cambiare le cose, che ci sarà davvero una rivoluzione. Ammiro molto le persone che continuano a impegnarsi e a cercare di costruire un mondo migliore».

C’è una questione che sollevi più volte durante il film: "fino a che punto ci si può spingere"? Breguet conclude che il terrorismo è uno strumento di lotta, ma non è un fine, un mezzo. Cosa ne pensi?
«Io mi considero non violento. Penso però anche che sia una posizione abbastanza facile per noi che viviamo in Svizzera, siamo dei privilegiati. Quando si vivono sulla propria pelle le ingiustizie del mondo, la tentazione di un percorso diverso e più radicale può essere forte. Sono convinto che bisogna lavorare con gli strumenti della politica e della cultura. Mi sembra però estremamente interessante cercare di capire, di ragionare su quali siano state le spinte che hanno portato la generazione di Breguet a intraprendere invece la lotta armata e utilizzare la violenza politica. Non certo per replicarla oggi, ma anzi per riflettere sui suoi limiti e sulla sempre necessaria coerenza fra mezzi e fini».

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