LongLake Festival organizza questo pomeriggio l'incontro con uno dei grandi della comicità italiana
LUGANO - Un autentico mito della comicità italiana. Non si può definirlo in altro modo, Cochi Ponzoni. 60 anni di carriera tra cabaret, teatro, tv e cinema (da solo o in coppia con Renato Pozzetto) ne sono la prova plastica. Lunedì 22 luglio dalle 18 sarà protagonista al Boschetto del Parco Ciani di Lugano di un incontro con il pubblico - nell'ambito di LongLake Festival - nel quale si andrà a ritroso nel tempo sull'onda delle pagine de "La versione di Cochi", il memoir scritto in collaborazione con Paolo Crespi.
Nel libro ricorda di quando sua madre e sua sorella presero a borsettate nientemeno che Licio Gelli, il potentissimo capo della loggia massonica deviata P2, che insidiava l'attività commerciale di suo padre.
«E se le meritava proprio! Quelle borsettate risalgono alla fine degli anni Cinquanta e ne ha combinati poi di disastri».
Lei fu il primo a vedere la "Merda d'artista" di Piero Manzoni, suo grande amico.
«Siccome sapevo che era sempre affamato perché era povero in canna, quando mi ha fatto vedere quella scatoletta pensavo che fosse del tonno. "Così finalmente mangi", gli dissi. Invece è stata la sua più grande opera. Penso ci sia dentro della marmellata, ma resta un mistero, come sempre succede per le opere d'arte. Anche perché sfido qualcuno ad aprirla e rovinarla, con quello che vale oggi...».
Ultimamente si è tornati a parlare molto di censura in tv. È qualcosa che anche lei e Renato Pozzetto avete sperimentato.
«La prima volta è stata una cosa ridicola, perché sono arrivati talmente tardi che hanno fatto autogol. Parliamo del primo sketch che abbiamo fatto nel 1968 sul maestro povero e l'alunno ricco. Erano i tempi in cui cominciavano ad affiorare le baronie universitarie. Ma si sono svegliato dopo la tredicesima puntata, quando tutta l'Italia ormai diceva "Bravo, sette più". Ci arrivò una lettera raccomandata dal ministero della Pubblica istruzione che ci proibiva di continuare a fare questi scherzi. Ma ormai era tardi».
Avete avuto altri guai anche più di recente.
«È successo durante la trasmissione "Stiamo lavorando per noi" (nel 2007, ndr). Io facevo con Renato una specie di predica laica, che portavamo da decenni in teatro. Invece in Vaticano si sono accorti che, secondo loro, era blasfema. Cosa assolutamente non vera. La Rai ci ha bloccato i finanziamenti della trasmissione, qualcosa nell'ordine dei 100mila euro. Perciò abbiamo dovuto scrivere una lettera di spiegazioni».
Il dialetto milanese era una delle componenti della vostra comicità. Oggi è ancora possibile far ridere con il dialetto o, visto che lo si parla sempre meno, sarebbe come pretendere di fare battute in latino?
«A livello locale si può ancora far ridere con il dialetto milanese, ma se si monta uno sketch o un monologo a livello nazionale, probabilmente si dovrebbe dare una specie di spiegazione per ogni battuta. Il milanese è una lingua vera e propria e per capirla ci vuole l'esame della cadrega, come hanno fatto Aldo Giovanni e Giacomo».
Ha preso parte al bellissimo docufilm di Giorgio Verdelli su Enzo Jannacci, che fu presentato l'anno scorso al Festival Castellinaria a Bellinzona. Cos'ha significato per il mondo dello spettacolo e della cultura in Italia?
«È stato un poeta. Prima in lingua, con le canzoni degli inizi che erano delle immagini della Milano del dopoguerra, della povertà e della disperazione. È sempre stato un cantore dei diseredati, ha avuto un'incredibile sensibilità nei confronti di quel mondo. Tutte le sue creazioni hanno avuto un fondo che riguardava il mondo dei vinti e le difficoltà di entrare nel settore consumistico importante».
Per lei, invece, cos'è stato?
«Era il mio fratellone, il mio amico, il mio tutor».
Cosa, o chi, la fa ridere oggi?
«Aldo Giovanni e Giacomo mi fanno sempre ridere. Anche Antonio Albanese e Paolo Rossi. Poi ci sono anche dei giovani che hanno delle qualità, come uno, misconosciuto, che si chiama Nicola Vicidomini. È un comico di avanguardia, molto di rottura. Spero che prossimamente riesca ad affermarsi».
Ha qualche aneddoto legato al Canton Ticino che ci vuole anticipare?
«A Lugano ho girato un film con Pio Bordoni, che poi ha fondato la scuola di cinema (il Cisa, ndr). S'intitolava "Ti ho incontrata domani" e l'abbiamo girato tutto a Lugano. Ho passato credo un mese e mezzo in un bellissimo albergo, in una camera proprio a picco sul lago. Grazie a Pio ho vissuto la vera Lugano, frequentando i suoi amici e l'ambiente culturale di quegli anni».