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CANTONEL'arte del mix: una questione di gusto e di... buttare all'aria tutte le regole

18.08.22 - 06:30
Patrick Carinci è partito dal Ticino e oggi è tra i più richiesti in Italia: il suo percorso (e qualche consiglio)
PATRICK CARINCI
L'arte del mix: una questione di gusto e di... buttare all'aria tutte le regole
Patrick Carinci è partito dal Ticino e oggi è tra i più richiesti in Italia: il suo percorso (e qualche consiglio)

SAVOSA - Sul suo profilo Facebook troviamo una foto che lo vede seduto con, alle spalle, un'intera parete ricoperta da dischi d'oro e platino. Ha iniziato dal Ticino Patrick "Wave" Carinci e ora il suo nome è quotatissimo nel mercato musicale italiano. Lui è uno di quei protagonisti silenziosi del mondo della musica, che non hanno la visibilità dei frontman ma che sono importantissimi (anzi, determinanti) per la riuscita di un brano: Patrick è un ingegnere del suono, un fonico di mix per essere più precisi.

Cosa fa, nel concreto, un fonico di mix?
«Il fonico di mix ha davanti a sé una tela vuota e riceve una paletta di colori dall'artista o dal produttore. Questi colori sono le voci, gli strumenti... Posso quindi dipingere la tela come voglio, partendo dagli elementi base che mi sono stati forniti. Il mio ruolo è quello di assemblare la composizione musicale, tutti i suoi che fanno parte della produzione e capire quale effettistica usare. In sostanza, si tratta di "impacchettare" il prodotto finale in modo che abbia un suono piacevole all'orecchio, con determinate caratteristiche».

Tu hai un tratto che ti distingue dagli altri professionisti?
«Sono ricercato nella scena musicale perché ho un suono molto forte, molto potente sui bassi ed estremamente nitido a livello vocale».

Sei partito dal Ticino e ti sei affermato in Italia: puoi spiegarci quale è stato il tuo percorso?
«Ho iniziato come la maggior parte dei ragazzi: con un computerino, in cantina, buttando le mie prime melodie. Nasco anch'io come rapper, scrivendo le mie canzoni, registrandomi e producendomi. È così che mi sono appassionato molto al lato tecnico e al poter manipolare il suono come voglio io - con equalizzatori, compressori e tutta la strumentazione a disposizione di un fonico. Poi cos'è successo? Gué Pequeno si è trasferito in Ticino e io mi ero già fatto la nomea di quello che si occupava degli artisti rap. Lui aveva bisogno di una persona che lo registrasse in casa ed è arrivato a me».

Poi cos'è successo?
«Mi è stato detto all'epoca, da persone a lui vicine, che Gué aveva visto in me un giovane con del potenziale e mi ha veramente spinto molto all'interno dell'industria. Un altro incontro fondamentale è quello, avvenuto un paio di anni dopo, con Vegas Jones. Siamo usciti con brani come "Trankilo", "Malibu" che sono diventati tormentoni in Italia e hanno costruito il nome dell'artista - e il mio. Da questo momento lo stesso Gué, che mi utilizzava solo per registrare, ha iniziato ad affidarmi i mix, come quello di "Lamborghini". Il successo di questi brani e i dischi di platino che sono arrivati hanno contribuito alla costruzione della mia reputazione e del mio suono caratteristico. Dicono infatti che ho contribuito a portare il suono "americano" in Italia, con le caratteristiche elencate in precedenza».

Questa consacrazione ti ha spalancato molte porte?
«Molti artisti hanno scelto di volere un suono più internazionale rispetto a quello che era lo standard in Italia. Sono arrivato sulla scena nel momento in cui è arrivata l'ondata della trap, di musica molto più hip-hop, da club. Un genere che ha la resa sui bassi come caratteristica principale, e io ero conosciuto come quello dei bassi potenti...».

Con chi hai collaborato recentemente?
«Sono arrivati i vari Shiva, RondodaSosa, Rhove, Capo Plaza. Attualmente credo di occuparmi della maggior parte della scena milanese».

Collabori ancora con Gué?
«No, non lavoro più con lui. Ha firmato altri accordi discografici, io ho continuato il mio percorso... Però, in sostanza, sono stati Gué Pequeno e Vegas Jones che mi hanno portato ad avere un nome e, di conseguenza, a essere ricercato da molti altri artisti».

Eri al posto giusto al momento giusto, quindi. Ma c'è stato anche tanto lavoro da parte tua: è questo il segreto del successo?
«Credo che a fare veramente la differenza sia stato l'aver portato qualcosa che mancava nella scena italiana. Ovvero quel suono ricco di bassi, molto club, che arriva dai miei ascolti. La trap, ad esempio, la seguo da quando avevo tredici anni, dal 2005, ben prima che diventasse popolare qui. Ho quindi lavorato per costruire il mio "marchio di fabbrica" intorno a questa sonorità molto potente, rendendomi conto che c'era un vuoto da colmare».

Come ti approcciano i giovani che vogliono entrare nella scena hip-hop?
«Ho avuto la fortuna di entrare nel giro nel momento in cui spopolava Instagram: sono finito sistematicamente nelle Stories di Gué, Vegas e questo ha permesso di "sdoganare" in Italia la figura del fonico. Così ho acquisito una fanbase abbastanza importante e, sempre attraverso i social network, i ragazzini si mettono in contatto con chi è in grado di offrire una determinata sonorità. Si vengono a creare dei trend essere uscito con Rhove - quindi con cassa dritta, sul quattro quarti - tutti coloro che si avvicinano a questa sonorità vengono direttamente da me. Chi ha amato "Shakerando" si rivolge a chi ha creato quel suono, per dire».

Hai dei consigli che ti senti di dare a chi vorrebbe emulare il tuo percorso professionale?
«La prima cosa che gli direi è di buttare all'aria tutte le regole. Se vuoi fare la differenza e portare qualcosa a livello sonoro bisogna stravolgere la consuetudine. Nel mio caso è stato portare alla ribalta i bassi, che prima erano tenuti in secondo piano. Poi occorre una vasta conoscenza musicale: non bisogna limitarsi a un genere, ma ampliare i propri orizzonti. Nel privato ascolto tutt'altro, io arrivo dal rock e dall'hard rock e i miei primi mix riguardavano gli artisti di quella scena ticinese. Sono convinto che conoscere e saper mixare più generi ti dia una visione più ampia e permetta di avere delle opportunità - come inserire un effetto classico del rock, magari una chitarra elettrica, in un brano hip-hop».

Qual è il vantaggio principale di questa versatilità?
«La durata nel tempo. Se uno non ha idea di trattare elementi differenti magari azzecca l'ondata giusta del genere che gli piace e che fa, ma la sua carriera finisce non appena tramonta quella sonorità. Bisogna rendersi conto che non si smette mai d'imparare: passo ore a guardare corsi video, a cercare spunti su YouTube, le interviste ai protagonisti... Non bisogna mai smettere di cercare, sperimentare, osare. Non aver paura di provare a fare qualcosa che, in genere, non è contemplato. Ad esempio, con artisti come Shiva uso questo effetto che si chiama "gate" e che fa vibrare la voce. Ma non lo metto sulla traccia vocale in sé, ma sugli eco della voce, così da avere un effetto particolare, che piace e fa incuriosire. È così che si ottiene, se vuoi, un "signature sound", che porta il pubblico a capire immediatamente che c'è Patrick dietro a quel brano. È fondamentale rendersi riconoscibili a livello sonoro e che ti faccia distinguere dalla massa». 

Ci vogliono delle abilità particolari che non s'inventano o si può partire completamente da zero?
«Quello che fa tutto, a livello di mix, è il gusto. Chiunque può acquisire le competenze tecniche, ma la differenza vera viene fatta dalle scelte che si fanno e sono la sintesi di ciò che si ascolta e di quello che si vuole fare. Nei miei mix ci sono poca tecnica e tanto sentimento: prima di metterci mano ascolto sempre il provino che mi viene mandato dall'artista, per capire dove vorrebbe andare a parare. È così che decido come impostare il brano».

Ci sono dei "trucchi" che ci vuoi svelare?
«Gioco tanto con la psicoacustica. In una canzone d'amore tendo a enfatizzare le basse frequenze che creano vibrazioni nella pancia, che ricolleghi alle farfalle nello stomaco. Per qualcosa da "esaltare" in discoteca vado a cercare la frequenza che ti arriva dritta nel petto. È tutta una questione di percezioni, di dare qualcosa di "fisico" all'ascoltatore».

Cosa permette di fare il salto di qualità dal dilettante al professionista?
«La cura del dettaglio. È importante dare sempre la novità all'ascoltatore: sono le sfumature che differenziano il mix impeccabile dal punto di vista tecnico da quello creativo e, in sostanza, il lavoro di un amatore da quello di chi fa questo mestiere».

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