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CANTONE«Masterchef? È diventato come Giochi senza frontiere». Aretini tra cibo e religione

21.06.19 - 06:01
Nel suo ultimo libro lo scrittore e videomaker osserva con severità la trasformazione del mondo della gastronomia e poi immagina il ritorno di Gesù sulla Terra
Tio.ch/20minuti Fabio Caironi
Aretini e l'editore Silvano Repetto presentano il libro a Poestate.
Aretini e l'editore Silvano Repetto presentano il libro a Poestate.
«Masterchef? È diventato come Giochi senza frontiere». Aretini tra cibo e religione
Nel suo ultimo libro lo scrittore e videomaker osserva con severità la trasformazione del mondo della gastronomia e poi immagina il ritorno di Gesù sulla Terra

LUGANO - Cibo e religione: due argomenti apparentemente molto lontani ma in realtà più vicini di quanto si pensi, specialmente negli ultimi tempi. Ne ha parlato Mirko Aretini nel suo ultimo libro "All you can read". Edito da Eic Edizioni, ha come sottotitolo "Storie indigeste per racconti di gusto". Lo scrittore e videomaker ticinese analizza il mondo della gastronomia nell'epoca dei social nella prima parte del volume, mentre nella seconda ipotizza il ritorno tra gli uomini di Gesù Cristo.

Perché hai scelto di scrivere un libro su questi due temi, apparentemente molto lontani?
«Credo che siano molto meno distanti di quello che si può pensare: si dice infatti che “sei ciò che mangi” o “ciò in cui credi”, come riflesso della cultura della tradizione e dell’appartenenza. Cibo e religione in qualche caso sono legati da veri e propri culti, perciò ho trovato che la correlazione sia accattivante».

Il mondo della gastronomia è diventato una sorta di culto religioso?
«Un po’ come le religioni, anche il mondo della gastronomia è sfuggito un po’ di mano. Si sono create ormai delle sotto-categorie che non hanno più limite e controllo. Come i pastafariani, questi sciroccati, pacifisti e simpatici… C’è però chi ci crede davvero e chi mette lo scolapasta in testa… Ci sono tante derivazioni in questo mondo, in cui come ti volti trovi follia».

Gli chef sono quindi come dei profeti?
«Più che profeti, li vedo come delle rockstar. Alcuni di loro sono determinati ad auto-celebrarsi, molto di più in realtà di quanto facciamo noi. Ormai siamo diventati più spettatori che clienti: bisogna poterselo permettere, economicamente, di andare in certi ristoranti, da certi chef. La cosa che mi fa più tenerezza, per non dire schifo, è questo stuolo di persone assolutamente normali, che di cucina non capiscono nulla, ma che improvvisamente vanno a spendere 5-600 euro per andare da Cannavacciuolo o da Cracco, farsi il selfie e pubblicarlo sui social. E se 10 minuti dopo gli chiedi cos’hanno mangiato, non se lo ricordano».

Perché lo si fa?
«Credo perché siamo circondati da una dominazione di apparenza costante. Oggi si basa tutto sull’essere ciò che tu vuoi far sembrare di essere e ci sentiamo quasi in dovere di mantenere un certo “status” di apparenza, che si quantifica con follower e like. L’era social sta effettivamente plasmando i nostri usi e costumi. Il mondo della gastronomia ci sguazza: Instagram o è moda o è cibo. Davvero non comprendo la gente che si mette a fotografare il piatto, senza avere la benché minima idea di come sia stato concepito, ma solo perché “fa figo”. Lo trovo profondamente triste».

La trasformazione degli chef in rockstar e la maggior esposizione mediatica hanno fatto bene al mondo della gastronomia e ai consumatori? Si è più attenti a ciò che si mangia?
«Se puntiamo il nostro indice sulle cosiddette “masse”, si è creata più curiosità ma non si sta più attenti, quindi spesso è come buttare le perle ai porci. La pubblicità da un lato aiuta, ma dall’altro è effimera e può essere perfino controproducente. Ritengo che Masterchef stia diventando come “Giochi senza frontiere”: è tutto estremizzato, le situazioni sono ridicole e non hanno assolutamente niente a che fare con la cultura del lavoro».

Qual è il piatto più sopravvalutato che possiamo trovare in tavola?
«Tra le cosiddette eccellenze sicuramente il caviale. Per il rapporto qualità-prezzo, per il modo in cui viene utilizzato, la gente non ci ha ancora capito nulla, così come il foie gras. Eppure s’illuminano gli occhi appena si nominano, e con quest’ultimo ormai si fa anche il gelato. Dà un po’ il senso dell’operazione di “vendita” del prodotto e di quanto la gente sappia davvero cosa ci sia dietro il foie gras. Io non sono animalista e mangio di tutto, ma almeno sono informato».

Nel libro te la prendi parecchio con il sushi…
«È sicuramente il piatto più sfruttato e travisato. Quello che conosciamo noi, alle nostre latitudini occidentali, non è sushi».

Cosa pensi che vada bene, e cosa no, nella mondo della gastronomia ticinese?
«La ristorazione ticinese ha delle ottime carte da giocare perché il territorio è florido. Se mi guardo intorno, facendo astrazione dal luogo, mi viene da dire che siamo messi male. Ma se consideriamo che il Ticino è noto per essere il posto in Svizzera nel quale si mangia bene, allora vuol dire che c’è chi sta peggio, oltre Gottardo. I problemi non credo stiano nella proposta: credo che risieda nel come rendere allettante la proposta e creare la giusta offerta, facendo sì che chiunque possa accedervi. Se per due pizze e due birre sfondi ampiamente i 60 franchi, se inizi a voler mangiare bene (intendo una bistecca cucinata bene e una bottiglia di vino) i prezzi lievitano. Ti chiedi quindi cosa non funziona: difatti ci sono locali che aprono, chiudono e non si fa nemmeno in tempo a provarli».

Qual è, invece, un punto di forza?
«La cultura dei grotti: la griglia la sanno fare bene, ma anche i piatti di selvaggina e le tradizioni più semplici e locali vanno alla grande. Oggi devi riservare come a un ristorante stellato, ed è sintomatico: si mantiene quella linea di prezzo accessibile a chiunque e la proposta è accattivante. Non c’è nessun altro luogo al mondo in cui c’è questo culto delle costine e delle puntine...».

Nella seconda parte del libro immagini un ritorno di Gesù sulla Terra. Cosa gli accade?
«Fondamentalmente viene rimandato sulla Terra dopo duemila anni, come si può immaginare un po’ controvoglia e un po’ titubante, memore dell’esperienza passata. L’idea è quella di cercare una seconda possibilità, che riabilita tutto e tutti. Il problema è che il mondo è cambiato: non è dato sapere se in meglio o in peggio, ma poi leggendo il libro si capisce facilmente in che direzione va… quindi male. Molto. Si trova con un mondo che non appartiene più a nessuno, ma tutti pensano di detenerne l’esclusiva».

E i suoi “portavoce”, ovvero i religiosi dei vari credi e confessioni?
«Innanzitutto potrebbe pensare chi li ha autorizzati a fare da portavoce! Potrebbe tranquillamente non riconoscersi in nessuno di loro, dato che nessuno ha chiesto di fare nulla. Sono proprio le migliaia di derivazioni religiose e dottrinali, che pensano di avere il pianeta nelle proprie mali, che hanno creato una situazione ancora più ostile e tragica di quanto non fosse duemila anni fa. Lo scontro tra visioni diverse teologiche o dogmatiche crea poi tensioni sociali e razziali, ideologiche e culturali che poi purtroppo sfociano spesso in violenza, guerra, genocidi eccetera eccetera».

Come pensi che potrebbe reagire?
«Potrebbe tranquillamente voltare le spalle a tutti e dire: “Fate un po’ come volete, visto che siamo arrivati a questo punto…”»

Come t’immagini questo Gesù che ricompare tra gli uomini?
«Come uno dei tanti santoni stereotipati che la cultura moderna ci ha insegnato a decodificare per immagini: con i sandaloni, la barba, i capelli lunghi. Una sorta di hippie positivo, che si fa i fatti suoi e cerca di aiutare i membri della sua comunità in nome della pace e dell’amore. Questo dovrebbe essere lo spirito che unisce i popoli. Se basata sull’educazione al rispetto reciproco, qualsiasi religione va bene. Bisogna evitare gli estremismi».

Se scegliesse il Ticino come destinazione per il suo Secondo avvento, cosa ne penserebbe?
«Probabilmente troverebbe ottime le costine (ride, ndr). Credo che simpatizzerebbe subito, visto che lui deve aiutare quelli un po’ più deboli e sfigati e quindi ci sarebbe una sintonia istintiva. Politicamente non ci capirebbe nulla, come nessuno di noi. Poi, per il resto, niente da dire: il posto è bello e potrebbe avere, negli scorci giusti, la conferma che il papà qualcosa sa fare».

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