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CANTONEMario Adorf: «Tognazzi amava fare il cuoco ma non sapeva cucinare»

08.08.16 - 18:22
Ha attraversato la storia del cinema, Mario Adorf. In mattinata ha incontrato il pubblico al Festival del Film
Mario Adorf: «Tognazzi amava fare il cuoco ma non sapeva cucinare»
Ha attraversato la storia del cinema, Mario Adorf. In mattinata ha incontrato il pubblico al Festival del Film

LOCARNO - Madre tedesca e padre italiano, Mario Adorf è cresciuto in Germania: «C’era la guerra, i bombardamenti», ricorda l’attore oggi 85enne. 

Poi, si iscrisse all’università: «Quale facoltà? Ho scelto letteratura e filosofia. Ho conosciuto professori meravigliosi e frequentato il gruppo teatrale dell’ateneo. Devo dire che lo frequentai anche perché ero infatuato di una ragazza... Ho provato e incominciato con una piccola parte - prosegue Adorf - Nel 1952 scrivemmo una pièce contro la guerra e fummo invitati a interpretarla all'interno di una scuola: nel dormitorio c’era anche un gruppo teatrale svizzero e ricordo che nel buio della notte si raccontavano storie… Colui alla guida della compagnia mi chiese se volessi recitare con loro in “Edipo re”, così andai a Zurigo. Successivamente, incontrai dei tedeschi e, aggregandomi a loro, mi recai a Monaco, dove decisi di iscrivermi all’accademia di teatro, abbandonando, di conseguenza, gli studi universitari. Subito dopo, per la prima volta, recitai in un film: “08/15”  di Paul May».

«Qualche tempo dopo, nel 1957, fu il momento di “Ordine segreto del III Reich” di Siodmak - continua l’attore - Successivamente, arrivai da Comencini, con cui girai “A cavallo della tigre” (Italia, 1961). Parlavo poco italiano e lui, Comencini, mi parlava in tedesco. L’italiano lo imparai piano piano… Un fattore, questo, che mi consentì di lavorare, complessivamente, in una quarantina di produzioni. Il film di Comencini non andò benissimo e dovetti ricominciare con una serie di piccoli ruoli per rientrare nel cinema italiano che contava…  Con Pietrangeli, recitai accanto a Stefania Sandrelli, nel film del suo esordio. A Cannes, un giorno, Stefania mi vide e mi disse: “Mario, quanto sei diventato bello… Prima eri un po’ brutterello…”».

«Qualche anno dopo, recitai per Dino Risi in “Operazione San Gennaro” (1966) e nel 1973 interpretai Mussolini ne “Il delitto Matteotti” perché il regista (Florestano Vancini, ndr) mi scelse per gli occhi, per il mio sguardo… - rivela Adorf - Avevo un bravissimo truccatore: ricordo che una persona della troupe, la prima volta che mi vide truccato urlò: “È lui! È lui!”. Francesco Rosi mi disse che Mussolini non doveva risultare simpatico: “Questi dittatori devono essere descritti nella loro cattiveria e brutalità. Tu lo hai “umanizzato” troppo”, mi diceva».

«Se ho visto delle differenze di impostazione di lavoro tra le due generazioni di registi (Reitz, Herzog, Fassbinder, ndr)? I vecchi dicevano che i giovani non sapevano lavorare. Gli attori che avevano superato i cinquant’anni non volevano recitare per Fassbinder. Io, al contrario, credetti in lui...  Proprio Fassbinder, oltretutto, aveva incominciato con attori di vecchia formazione con ottimi risultati...».

«Straub per me era il cineasta più puro… - continua - Era molto rigoroso: ricordo che mi faceva i primi piani e fermava la scena perché non portavo le scarpe del film... Un esempio, questo, che sembra assurdo, ma che prova quanto fosse un uomo rigoroso...». «Fassbinder, al contrario, per “Lola” (Germania Ovest, 1981), ad esempio, non voleva nemmeno fare le prove… Le facevamo tra noi attori nei camerini… Giravamo una volta e basta… Accettava anche le imperfezioni... “A me - diceva - la perfezione non interessa...”». 

«Non sono uno che guarda tre film al giorno… - ammette - Vado al cinema come uno spettatore normale, senza concentrarmi su questioni prettamente tecniche...».

«Gli attori italiani che ho frequentato di più? Nino Manfredi e Gian Maria Volonté, due grandi amici. Lavorai con Mastroianni nel 1956 e lui era già famoso... Tognazzi era un bravissimo attore... Amava anche fare il cuoco, ma non sapeva cucinare... Franco Nero, lo vedo spesso, ci conosciamo bene…».

«Negli anni della “Dolce vita” a Roma era pieno di attori americani… - prosegue - C’era anche Harvey Keitel… Ricordo che c’erano feste ogni sera. Io, una volta, invitai sessanta persone: avevo preparato tutto alla perfezione. Alle nove e mezza non arrivava nessuno e mi preoccupai. Poi, di persone se ne presentarono almeno cento... Venivano da un altro party…. Poi, nel 1973, con la crisi, le sale cinematografiche incominciarono a chiudere alle otto, i ristoranti alle dieci… Da lì cambiò tutto, e quell’atmosfera si rovinò definitivamente...».

E prima di concludere, a proposito del cinema a stelle e strisce, dice: «Tarantino? So che gli piacciono i ruoli che ho fatto, ma non l’ho mai conosciuto… Peccato… Vediamo se mi chiama…». «In America, comunque – rivela –, non mi sono trovato bene, non era la mia strada… Avevo molte offerte in Germania e in Italia, così decisi di tornare...».

 

 

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