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Ricordi e ritratti di vita nel nuovo disco di Terry Blue

CANTONERicordi e ritratti di vita nel nuovo disco di Terry Blue

24.01.18 - 06:00
Esce oggi “Even If This Winter Seems To Last Too Long”, il nuovo album del collettivo ticinese Terry Blue, che alle 21 sarà presentato negli studi Rsi di Lugano nell’ambito degli showcase di Rete Tre
FOTO OMAR BOCCUTO
Ricordi e ritratti di vita nel nuovo disco di Terry Blue
Esce oggi “Even If This Winter Seems To Last Too Long”, il nuovo album del collettivo ticinese Terry Blue, che alle 21 sarà presentato negli studi Rsi di Lugano nell’ambito degli showcase di Rete Tre

LUGANO - Un progetto, Terry Blue, venuto alla luce nel 2013 e trasformatosi in collettivo dopo un primo percorso solista di colui che troviamo alla guida, Leo Pusterla (voce, chitarra), che da qualche tempo condivide la line-up della formazione con Andrea Zinzi (chitarra elettrica), Giuliano Ros (basso) e Matteo Mazza (batteria).

“Even If This Winter Seems To Last Too Long” raccoglie undici tracce ammalianti che, muovendosi tuttora a ridosso di strutture di matrice alt-folk oriented, proiettano il combo - rispetto alle produzioni precedenti - costruite prevalentemente in acustico - verso una nuova direzione sonora, una direzione più elettrica...

Leo, Terry Blue nasce come progetto solista: raccontami l’evoluzione e perché la scelta di trasformarlo in un collettivo…

«Il progetto Terry Blue è effettivamente nato in una veste solista, acustica e radicalmente folk. Nel 2013 ho scritto i miei primi brani e, entrato in contatto con Matteo Mazza - attuale batterista del collettivo -, ho avuto l’occasione di registrare un primo ep (“Six Ruins, One Less Hope”, autoproduzione, 2013, ndr) nel suo studio a Certara, in Val Colla. L’idea di costruire una band/collettivo è venuta proprio a Matteo che, nei mesi successivi, mi ha proposto una collaborazione per un secondo lavoro discografico. Tuttavia, l’evoluzione è stata solo parziale, dato che il nostro primo vero e proprio album, “The Burning Trees” (autoproduzione, 2015), si muove comunque all’interno di una sfera acustica/cantautorale e sempre delineata dai grandi maestri, e miei idoli di quei tempi, Bob Dylan, Leonard Cohen e Lou Reed. In qualche modo ero “incatenato” alla metrica Dylaniana e alle sonorità americane, tanto che, con il senno di poi, mi rendo conto di quanto questi brani mi appartengano solo in parte, come se fossero stati, in quegli anni, una sorta di tributo continuo agli artisti che ascoltavo. Soltanto in un secondo tempo, Andrea Zinzi si è aggregato al progetto, dando il via a quello che definirei un cambio radicale. Dopodiché, nel 2015, Giuliano Ros ha completato la formazione e, in un piccolo locale a Capolago, ci siamo concentrati per una settimana  componendo e arrangiando i brani che poi, registrati con l’aiuto di Karim Pandolfo (Mécanique Studios, La Chaux-de-Fonds), sono stati raccolti in “Mécanique EP” (autoproduzione, 2016), il primo vero e proprio lavoro in quanto collettivo».

Perché Terry Blue?

«Il nome Terry Blue ha delle origini piuttosto “antiche”, e adolescenziali, che, tuttavia, ho deciso, e abbiamo deciso, di non rinnegare. Per farla breve, l’idea mi è venuta da un brano, famosissimo, dei Kinks, “Waterloo Sunset”: uno dei due personaggi della canzone è Terry… E accostato a Blue “suonava” bene...».

Cosa vuoi dirmi del processo di lavorazione del nuovo album? So che i testi nascono dalle tue esperienze in corsia...

«L’album è un’evoluzione piuttosto radicale di Terry Blue, perché si distanzia molto da tutto ciò che abbiamo, e ho, prodotto in precedenza. Come effettivamente dici molto bene, è un album scritto “in corsia”. Negli ultimi tre anni - grazie al mio servizio civile e alla mia formazione presso l’Haute Ecole de la Santé La Source di Losanna - ho avuto l’opportunità di lavorare nel settore ospedaliero come aiuto infermiere. Questo grande cambiamento ha avuto delle implicazioni molto importanti a livello personale e artistico. All’interno di un contesto come questo, per scelta e per forza di cose, siamo obbligati a introdurci in una sfera relazionale, in una bolla di intimità, impossibile da raggiungere altrove. Di conseguenza, entrare in contatto con le persone, non si tratta soltanto di conoscerle… L’ambito in cui sto tentando di specializzarmi è, principalmente, quello della fine della vita: un contesto in cui le persone ci marcano, durante e dopo la loro fine, ci segnano. Il concetto è dunque questo: di tutte queste tracce, di questi ricordi, di questi ritratti che tanto mi hanno segnato, che farne? La risposta che mi è venuta più spontanea - e forse anche in maniera non del tutto cosciente, dato che è fin troppo semplice analizzarne il processo ora, a posteriori - è stata quella di farne una collezione, un album in grado di parlare delle persone, e di me naturalmente, ma soprattutto del nostro incontro e dell’incrociarsi delle nostre vite. In maniera un po’ narcisistica, ho l’impressione di avere scolpito qualcosa di tangibile, partendo da ciò che di meno tangibile possiamo trovare: la morte».

Quale storia ti è entrata particolarmente nel cuore?

«Quella di un uomo di 28 anni, conosciuto nel periodo in cui lavoravo in Chirurgia Viscerale al Chuv di Losanna. La canzone “At Least For A Little While” è il resoconto di una discussione avvenuta tra me e lui, con un’immagine molto forte, seduti in terrazza all’ospedale. Guardando gli elicotteri che partivano e atterravano mi disse: “Una volta ne prendiamo uno e mi porti via”. Questa frase è il ritornello della canzone».

Quali le maggiori influenze musicali confluite all’interno della produzione?

«Entrando nelle sonorità del disco, si nota immediatamente un cambio di scelte stilistiche, di genere e, soprattutto, di ascolti. Negli ultimi anni ho scoperto artisti contemporanei che mi hanno profondamente colpito, influenzato e ispirato. Un nome è quello di Ben Howard: il suo disco “I Forget Where We Were” (Island Records, 2014) è per me uno dei più belli e profondi mai registrati. In qualche modo il disco documenta anche un cambio territoriale, poiché da un mondo musicale prettamente americano ora ci ritroviamo in un contesto britannico: ho cambiato modo di cantare, di pronunciare, di interpretare e, soprattutto, di comporre, grazie ad artisti come lo stesso Howard, i Daughter, Dermot Kennedy e altri, allontanandomi molto da quelli che erano i tratti riconoscibili del progetto Terry Blue. So che non a tutti piacerà questa transizione e, in un certo senso, ne sono contento, perché credo rinforzi il sentimento che ho verso questo disco, ossia la sensazione di sentirlo completamente mio, sincero».

In quali formati sarà pubblicato?

«Restiamo autoprodotti e, con con l’aiuto de Il Polo della Musica, pubblicheremo l’album in formato digitale su Spotify, iTunes, Bandcamp, ma sempre con la possibilità di poterlo acquistare anche in cd».

State pianificando un tour?

«Venerdì 26 gennaio mi esibirò in una “solo session” acustica al Circolo Turba di Lugano. Stiamo comunque organizzando parecchie date, anche in Svizzera francese, ma non parlerei di un tour… In questi termini, facciamo il possibile, con la speranza che questo album abbia un nuovo impatto, diverso e più intenso…».

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