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SPECIALEDi cronometristi, montagne rocciose e record infranti

25.07.18 - 23:53
Siamo stati alla Pikes Peak e, senza volerlo, abbiamo assistito a un evento destinato ad entrare nei libri di storia. Grazie soprattutto ad una cosa: il cronometro.
Di cronometristi, montagne rocciose e record infranti
Siamo stati alla Pikes Peak e, senza volerlo, abbiamo assistito a un evento destinato ad entrare nei libri di storia. Grazie soprattutto ad una cosa: il cronometro.

“Wow!”. Per quanto banale, questa è pressoché l’unica espressione che usciva dalla mia bocca mentre, con la mia Chevrolet Tahoe a noleggio, percorrevo la strada che porta alla cima della Pike National Forest. Per gli amici: Pikes Peak. E a questo punto potrei aver già detto tutto, dato che seppur poco seguita, questa corsa in salita della durata di una sola giornata è di fatto una di quelle gare leggendarie che ogni appassionato di automobili conosce. Per molti è celebre grazie al cortometraggio “Climb Dance” in cui Ari Vatanen sfreccia sullo sterrato a bordo di una Peugeot 405 T16, i più giovani l’hanno sentita nominare con il record che Sebastien Loeb ha infranto nel 2013 sempre con Peugeot (questa volta una più moderna 208 T16 sviluppata per l’occasione). Fatto sta che la Pikes Peak International Hill Climb è la seconda corsa automobilistica più vecchia degli Stati Uniti, come si può scoprire visitando il piccolo museo nella vicina cittadina di Colorado Springs in cui se ne ripercorre la storia dal 1916 ad oggi.

L’evento, in realtà, ha dimensioni molto più contenute di ciò che ci si potrebbe immaginare. Tutto prende il via qualche giorno prima della gara: le varie squadre hanno a disposizione alcune fasce orarie per effettuare delle prove libere lungo dei singoli settori tracciato (non è mai concesso percorrerlo per intero). Il tutto in maniera molto ‘casalinga’ dato che nessuno può insediarsi ai piedi della montagna o lungo il percorso: ogni giorno arrivano con il loro camion, scaricano l’auto, effettuano le varie prove, ricaricano l’auto sul camion e tornano a casa da qualche parte nei dintorni di Colorado Springs. Cittadina di circa 400'000 abitanti che il venerdì sera si anima proprio in onore della corsa: lungo le strade del centro, appositamente chiuse, le varie squadre espongono le loro automobili assieme ad aziende del settore, il tutto condito con esibizioni di Motocross che attirano sul posto qualche migliaio di persone.

Percorrere la strada che porta alla sommità è impressionante, come anticipato in apertura. Si parte da altitudini che in Svizzera corrispondono a quelle dei valichi alpini più alti e anche superati i 3'000 metri di quota c’è ancora vegetazione. A differenza di quanto ricorderanno i più nostalgici ora il percorso è completamente asfaltato, una scelta inizialmente sofferta ma poi accettata anche dagli stessi organizzatori dato che ha permesso di prevenire l’erosione e di fatto garantirne a lungo termine la percorribilità. La carreggiata è molto larga e il percorso molto variato, caratterizzato da curve sinuose con tratti veloci (velocissimi!) alternati da tornanti stretti. Poi, a un certo punto, la vegetazione scompare all’improvviso e tutto quello che ti ritrovi davanti al parabrezza è un solo nastro d’asfalto con della terra rossastra ai lati e tanto, tantissimo cielo. Una volta raggiunta la vetta, a ben 4'302 metri di quota, si comprende perché viene denominata “la corsa verso le nuvole”.

Per quanto possa apparire una gara più semplice e banale della altre, la macchina organizzativa della Pikes Peak comprende cinque persone che lavorano a tempo pieno lungo l’intero arco dell’anno, principalmente per la raccolta di sponsorizzazioni. La celebre corsa in salita ha recentemente trovato un importante sostegno nella svizzera TAG Heuer, tra i produttori di cronografi di pregio più noti al mondo, da molto tempo attiva nelle corse automobilistiche quale cronometrista ufficiale. A margine della manifestazione abbiamo avuto l’occasione di intrattenerci con una coppia di cronometristi che iniziando da semplici gare di motoslitte sono arrivati sin qui, con un’azienda responsabile del ‘time keeping’ nei più importanti eventi motoristici del Paese. “Non abbiamo praticamente nessun fine settimana libero!” ci dicono con un misto di orgoglio e rassegnazione. Quello del cronometrista è un lavoro complesso, meticoloso e spesso sottovalutato. “Senza di noi ve li sognate i risultati!” affermano ridendo. Poi ritorna la serietà. “Alla Pikes Peak impieghiamo 7 cronometristi che utilizzano la strumentazione elettronica mentre altri 12 si avvalgono del buon vecchio cronometro meccanico: avere il backup analogico è fondamentale in caso di imprevisti quali danneggiamenti o black-out. Il nostro lavoro è suddiviso prevalentemente in tre fasi: la più importante è sicuramente la preparazione, durante la quale è necessario curare i dettagli in maniera maniacale. Un minimo errore può infatti compromettere la seconda fase, che è quella del rilevamento dei tempi vero e proprio durante la gara. Segue quindi la distribuzione dei dati registrati, che deve avvenire il più velocemente possibile a più utenti possibili: per questo motivo dobbiamo allestire una struttura davvero imponente.”. Un’attività, quella del cronometrista, che fatica a trovare giovani interessati. “In questi anni ho notato che i ragazzi hanno estreme difficoltà nel mantenere una concentrazione elevata per lunghi periodi, condizione essenziale nella nostra funzione. Basta distrarsi un attimo per mandare tutto in fumo!”

Il cronometro è stato sicuramente il chiodo di fisso di Volkswagen, approdata alla Pikes Peak con la “I.D. R Pikes Peak”. Si tratta di un prototipo completamente elettrico da ben 680 cavalli costruito esclusivamente per frantumare il record assoluto che dal 2013 è saldamente nelle mani di Sebastien Loeb e della Puegeot che impiegò allora 8 minuti, 13 secondi e 878 millesimi. Poco dopo le cinque e mezza del mattino di domenica attorno alla partenza c’è già un movimento incredibile con il pubblico accampato in loco in procinto di risvegliarsi e i team già incessantemente al lavoro. Questi ultimi sono accampati con i rispettivi a gazebo a bordo a strada; strutture strette e lunghe dagli spazi limitatissimi, indipendentemente dal fatto che tu sia un privato del midwest o che ti chiami Volkswagen Motorsport. Passeggiando si può vedere di tutto: le ‘solite’ leggende americane, i classici prototipi da corsa in salita, Supercar a motore a centrale tirate a lucido come pure una fitta schiera di Porsche Cayman GT4 e storiche europee tra cui diverse Audi quattro. Praticamente tutte, salvo eccezioni, accomunate da quelle appendici aerodinamiche quasi assurde che da sempre contraddistinguono questa gara. Il tutto prende il via attorno alle otto, con la partenza delle moto. Qualche oretta più tardi è il momento delle auto, con il bolide elettrico di Volkswagen ad aprire le danze. Nei suoi confronti ci sono grandi aspettative e gli occhi sono tutti puntati su di loro. I tecnici tedeschi sono in ogni caso fiduciosi: “Nei giorni di test era più veloce in ogni settore delle Peugeot di Loeb, quindi da un punto di vista prettamente teorico dovremmo farcela.” I minuti che precedono la partenza della VW sono molto tesi, in particolare perché nei dintorni della cima le condizioni metereologiche variano di continuo. Poi ad un certo punto il pilota francese Romain Dumas, a cui è stato affidato questo prezioso compito, si avvicina ai blocchi di partenza. Regna un silenzio quasi religioso interrotto unicamente dalla sirena applicata all’auto che, essendo elettrica, di rumore praticamente non ne fa. Ed è proprio nel silenzio che schizza via con un’accelerazione impressionante: un momento era qui, quello dopo non la si vedeva più. Nel frattempo il cronometri scorre e delle auto che partono dopo di lei sembra quasi non importare a nessuno. Tic-toc, tic-toc, tic-toc. Finché ad un certo punto il cronometro si è fermato, e la notizia del tempo impiegato si è diffusa “a valle” nell’entusiasmo generale. 7:57:148.

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