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TICINO/ITALIA«Qui è vietato fallire, ma anche avere successo»

22.08.18 - 10:00
Secondo Francesca Corrado, che ha fondato la prima scuola di fallimento, manca il diritto di sbagliare ma anche quello di considerarsi riusciti se non si "sfonda"
«Qui è vietato fallire, ma anche avere successo»
Secondo Francesca Corrado, che ha fondato la prima scuola di fallimento, manca il diritto di sbagliare ma anche quello di considerarsi riusciti se non si "sfonda"

LUGANO/MODENA - In un mese, era il 2015, ha perso tutto: la sua azienda, la docenza in università, la casa e pure il fidanzato. «Sì, mi sentivo fallita», ammette Francesca Corrado, che dell'esperienza ha fatto tesoro e ora è titolare della prima scuola di fallimento, fondata a Modena un anno esatto fa, in cui prova a «educare all'insuccesso per raggiungere il successo».

«Sì, sta andando bene - racconta - Facciamo diversi corsi. Inizialmente l'avevo pensata come iniziativa rivolta a gruppi di persone, ma ultimamente ricevo sempre più contatti da parte di singoli. Purtroppo la paura del fallimento impedisce ai giovani di fare impresa. Non lo dico solo io, ma tanti studi e convegni». 

Francesca, perché si ha così paura del fallimento?

«Perché è vissuto come una dimostrazione della propria incapacità. C'è una pericolosa uguaglianza fra il concetto di perfezione e quello di competenza. Così il fallimento mette in discussione l'immagine che abbiamo di noi stessi. Inoltre, si prova vergogna e senso di colpa e si teme di essere giudicati male dagli altri». 

Che cosa pesa di più: il proprio giudizio o quello degli altri?

«Si tratta di due piani diversi, che si affermano in contesti differenti e spesso vanno di pari passo». 

Come se ne esce?

«Bisogna guardare il fallimento da una prospettiva diversa, come un'occasione. Per me lo è stato. All'inizio davo la colpa agli altri. Poi ho iniziato a chiedermi se non avevo io delle responsabilità. E da lì ho cominciato un percorso che mi ha portato dove sono oggi. Anche un fallimento ha qualcosa da insegnare: i più grossi fallimenti hanno finito per tracciare la strada giusta».

Dobbiamo dunque imparare dagli Usa?

«Negli Usa la situazione è molto contraddittoria. C'è una cultura sana del fallimento, accompagnata da una insana cultura del successo, che dev'essere planetario. Io invece provo a insegnare qualcosa di diverso».

Che cosa?

«Anzitutto, con il mio team lavoriamo sul concetto di errore, cosa che normalmente non fa lo psicologo cui si tende a rivolgersi quando non se ne esce da soli. Il fallimento non è uno stigma sociale, ma l'opportunità di mettere in discussione in modo positivo noi stessi e capire ciò che potremmo diventare. Senza necessariamente puntare al successo clamoroso». 

Perché no?

«Oggi si vuole sfondare a tutti i costi. Ma il successo è qualcos'altro. Io, per esempio, vivo i miei fallimenti come un "successo", col senno di poi. Mi hanno permesso di rinascere, di capire chi ero e che cosa volevo». 

Francesca, lei ha detto che noi abbiamo una insana cultura del fallimento. Quella del successo almeno è sana? 

«Abbiamo molto da lavorare anche su questo. Il successo è legato alla felicità, non al riconoscimento; chi invece apre una start-up lo fa per sfondare. Non abbiamo la libertà di fallire, ma nemmeno quella di avere successo. Non siamo nelle condizioni di sperimentare ed essere. E questo accade fin da piccoli: i genitori non lasciano sbagliare i figli, negano loro il diritto di fare esperienza».  

Ma con i soldi come si fa? La paura del fallimento è anche paura di bruciare tutti i risparmi... e poi?

«Psicologicamente i soldi sì, contano. In questo contesto di difficoltà di accesso al credito, spesso vengono chiesti ai genitori. E o la va o la spacca: si fa fatica ad andare a chiedere di nuovo aiuto, se va male. Ma a volte il limite è mentale. Non sempre servono grossi importi per partire o per ricominciare. Né bisogna gettare la spugna in fretta. Bisogna lavorare sul tempo e sulla pazienza, cambiare il mind-set. Una start-up si può chiamare di successo dopo dieci anni». 

Davanti al sentimento di vergogna, esiste il diritto all'oblio?

«Meglio di no: si toglie agli altri l'occasione di imparare. Perché non solo noi impariamo dai nostri errori; diamo la possibilità agli altri di non ricadere nei nostri. Il fatto di voler nascondere è sintomatico di qualcosa che non va. L'atteggiamento giusto è quello opposto. Posso spiegare il motivo con due esempi che derivano dal mondo dell'aeronautica e quello della medicina. Nel primo, c'è una cultura della condivisione dell'errore: e il numero di incidenti così può diminuire. Nel secondo, l'errore si nasconde, per paura che la gente non abbia più fiducia e si perdano pazienti. E l'errore si ripete». 

I giovani sono più a rischio degli adulti?

«È un fenomeno trasversale. Noi lavoriamo con tutti, con modi diversi a seconda del target. Anche con i bambini, che non possiedono il concetto di fallimento ma possono comprendere quello di vittoria e sconfitta. Non ci sono lezioni frontiali, si usano le tecniche del gioco e del teatro. Bisogna partire fin da piccoli. E sbagliare, senza sensi di colpa». 

 

 

 

 

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