L'economista Sergio Rossi accusa il sistema finanziario: «Non investe sul territorio, innovazione e creatività sono paralizzate. Basta start-up, serve un progetto comune»
LUGANO - Un'economia in sofferenza, con molti punti oscuri e un problema strutturale che dopo l'abolizione del segreto bancario rischia, se non si corre ai ripari in tempi brevi, di diventare una realtà di lungo periodo. È questo il quadro dello stato dell'economia ticinese secondo Sergio Rossi, economista e professore ordinario all’Università di Friburgo coordinatore del volume "L'economia elvetica nella globalizzazione"” edito da Armando Dadò Editore. A preoccupare è la fine di un sistema bancario che ha provocato disoccupazione, dumping salariale e chiusura di attività commerciali. E che genera incertezza sul futuro. Ticinonline ha parlato con il Professor Rossi per capire cosa bisognerebbe fare per invertire la rotta.
Professor Rossi, com'è lo stato di salute dell'economia del Ticino?
«Diciamo che è precario, fragile e affetto da una malattia che paralizza l'innovazione e la creatività anche perché a ciò si aggiunge il problema del finanziamento. Un giovane spesso non sa cosa studiare e segue dei cliché pensando di avere un diploma che lo porta ad avere un lavoro sicuro nel settore finanziario o in quello pubblico. Manca una cultura imprenditoriale: la voglia di provare di correre dei rischi e la capacità di creare qualcosa dal nulla così come è stato in passato portando uno sviluppo economico importante. Il cantone Ticino patisce anche una povertà sociale maggiore all'interno della Confederazione: il potere d'acquisto e i patrimoni dei residenti sono inferiori a quelli di altri cantoni di lingua francese o tedesca. Manca anche un capitale finanziario al quale appoggiarsi per avviare un'attività o finanziarsi gli studi».
In questo quadro fosco non stanno meglio i giovani…
«In canton Ticino le prospettive d'impiego per le persone laureate sono poche e con stipendi che altrove sono più del doppio. È facile quindi vedere dei giovani ticinesi che studiano in altri cantoni elvetici o fuori Svizzera e poi non rientrano più in Ticino. Magari poi vengono sostituiti dai frontalieri senza il cui apporto però la situazione dell’economia ticinese sarebbe ancora peggiore di quella attuale».
È colpa anche di una monocoltura bancaria?
«Le banche possono sperare di avere dei rendimenti solo se prima concedono dei crediti alle nuove generazioni per farle crescere assieme al territorio con ricadute positive per la società. Se invece si aspettano di avere capitali a risparmio dal resto del mondo, il mondo è cambiato. Le banche ticinesi dovrebbero essere orientate all'economia cantonale e lavorare per il suo benessere investendo nel territorio i risparmi raccolti e dando credito alle nuove imprese per le attività legate al territorio in vari campi, soprattutto nell'economia sostenibile».
Potrebbe essere la sostenibilità la nuova chiave di sviluppo dell'economia ticinese?
«Senza dubbio: bisognerebbe sviluppare le tecnologie pulite che creano posti di lavoro, così come quelle legate alla mobilità lenta e le tecnologie informatiche. E poi investire in servizi alla persona e nello sviluppo delle scienze mediche dato che il trend della popolazione va verso l'invecchiamento demografico».
E la politica cosa dovrebbe fare?
«Dovrebbe recuperare la forza propulsiva della spesa pubblica, specialmente in un periodo in cui i tassi d'interesse sono storicamente bassi. Oggi vediamo che, di fronte alle difficoltà dell'economia privata, quella pubblica invece di spendere e investire riduce la spesa dello Stato. Questa non è la politica economica adatta per risolvere i problemi attuali. Bisognerebbe, invece, avere un progetto comune, una visione sistemica tra chi fa impresa e chi fa politica, qualcosa che vada oltre alle start-up. E non rifugiarsi nel calcolo contabile in base al quale alla fine dell'anno le entrate devono essere pari alle uscite dello Stato. Servono proposte solide e costruttive per uno sviluppo economico a vantaggio della collettività: non si può pensare di uscire dalle secche pensando solo di abbassare le aliquote fiscali e immaginando che tutto il resto venga da sé».
Si dovrebbe puntare su ricerca e sviluppo?
Certo, sono due concetti chiave per il successo di un'impresa. Per innovare servono sì capitali ma anche persone formate, facendo interagire imprese e centri di ricerca con l'intervento dell'ente pubblico. Ne trarrebbero vantaggio tutte le parti in gioco».
Come potrebbero finanza, impresa e ricerca interagire tra di loro?
«Le imprese che hanno un interesse nell'economia cantonale potrebbero facilmente creare un legame con dei centri di ricerca anche in chiave transfrontaliera per avere un dialogo costruttivo. La ricerca applicata soddisfa i ricercatori e le imprese "sfruttano" le ricerche per inventare e creare nuovi sbocchi di mercato. Non dimentichiamoci che lo "Swiss made" esercita sempre un certo rilievo e ha sempre il suo valore aggiunto in vari settori».
Quindi in conclusione che scenari si posso disegnare per il Ticino nel breve e nel lungo periodo?
«Nel breve lo scenario più realistico è quello meno incoraggiante. E cioè che si prosegua con questa inerzia che spinge verso il basso l'economia e la società. Nel lungo termine non sono in grado di fare una previsione precisa ma temo che, continuando a insistere sul concetto che il Ticino è lasciato a margine dell'economia svizzera, si continuerà a reclamare maggiori aiuti ma senza darsi da fare per farsi capire a Berna. Le forze ci sono e si potrebbe fare squadra con le forze della vicina Italia in modo da guadagnare entrambi anche se non vedo un dialogo costruttivo tra le autorità della Regione Lombardia e del cantone Ticino».