La palla passa ora al Senato. In caso di condanna, il presidente sarebbe rimosso. Ma il fronte repubblicano pare granitico
WASHINGTON - Mercoledì 18 dicembre, Donald Trump è diventato il terzo presidente degli Stati Uniti a essere messo sotto impeachment dopo Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998. La Camera ha avviato formalmente il processo, approvando i due capi d’imputazione: abuso di potere e ostruzione al Congresso. La palla ora passa al Senato, che sarà chiamato a pronunciarsi il mese prossimo e dove Trump può contare sulla maggioranza dell’elefantino.
Il procedimento, stando a quanto fatto sapere dai leader della Camera alta, non dovrebbe iniziare prima del 6 gennaio. Il fronte fra i due schieramenti si è già fatto infuocato. Negli scorsi giorni, il leader della maggioranza McConnell ha sbattuto la porta in faccia alle richieste del capogruppo democratico Chuck Schumer, che chiedeva di chiamare altri funzionari dell’amministrazione a testimoniare. «Non è compito del Senato cercare disperatamente i modi per arrivare a una condanna», ha affermato il senatore del Kentucky.
In risposta, la speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha annunciato che i due articoli approvati saranno inviati al Senato solo quando ci saranno garanzie di un processo equo.
Se la Camera alta del Congresso dovesse pronunciarsi a favore della condanna, Trump sarebbe rimosso dall’incarico. Considerato lo scenario, l’ipotesi sembra tuttavia remota. Un eventuale verdetto di colpevolezza necessita di un quorum dei due terzi e i repubblicani detengono la maggioranza in Senato con 53 seggi (45 i democratici, due gli indipendenti). E su questo il tycoon fa cieco affidamento: «Il Partito Repubblicano non è mai stato così unito», ha affermato durante il suo ultimo comizio a Battle Creek, tenuto proprio in concomitanza del dibattito di ieri al Campidoglio.