È stata la decisione coraggiosa, dai connotati storici, di Hiroaki Murayama, giudice della Corte distrettuale di Shizuoka, a favorire il rilascio di Hakamada, 78 anni e in precario stato psicofisico, e lanciare un durissimo atto di accusa contro la giustizia nipponica. Nel dispositivo, Murayama ha approvato i risultati del test del Dna che indicavano il sangue rilevato su cinque capi di abbigliamento, ritenuti essere stati indossati dal pluriomicida, non dall'ex pugile.
Gli esami sono la "prova evidente - ha detto - che garantisce un verdetto di non colpevolezza", in uno scenario in cui c'è la possibilità che le autorità investigative "abbiamo lavorato" per le prove incriminanti. Hakamada "è stato ritenuto colpevole con elementi di prova che potrebbero essere stati costruiti e, di conseguenza, è stato detenuto per tanto tempo nel timore della pena capitale", ha ammonito il giudice, definendo come "insopportabilmente ingiusto tenerlo ancora in detenzione".
Murayama ha tirato dritto, rigettato il ricorso della procura locale e disposto l'immediata scarcerazione. E se l'Ufficio dell'alta procura di Tokyo prenderà in considerazione l'ipotesi di ricorso contro la revisione del processo, il caso Hakamada è diventato breaking news, al punto che la scarcerazione dal Tokyo Kouchisho è stata trasmessa in diretta dalla tv pubblica Nhk.
Gli avvocati della difesa hanno invitato la procura a evitare un "inutile accanimento" contro Hakamada, detenuto nel braccio della morte per un periodo tanto lungo da essere entrato nel Guinness dei primati a marzo 2011. Accusato di aver ucciso a coltellate la famiglia del suo datore di lavoro, l'ex pugile fu arrestato nel 1966 e condannato due anni dopo alla pena capitale (confermata nel 1980 dalla Corte Suprema). Aveva confessato dopo giorni infiniti di interrogatori senza tutele, molto più simili a tortura. E poi ritrattato, dicendo di essere stato costretto all'ammissione di colpevolezza per le violenze della polizia.
Da qui l'infinito e surreale braccio di ferro, con un forte arbitrio da parte dei diversi tribunali intervenuti: l'appello e il secondo grado durato 27 anni. Nel 2008, una seconda istanza di revisione conclusasi a suo favore grazie alla determinazione della sorella 82enne Hideko e dei gruppi anti-pena di morte, tra cui la filiale nipponica di Amnesty International.
Il suo segretario, Hideki Wakabayashi, espresse a ottobre, in occasione di un 'pubblico dibattito' sulla pena capitale in Giappone promosso dalla Comunità di Sant'Egidio, scetticismo in merito alla revisione del processo da parte Corte distrettuale di Shizuoka, con l'udienza fissata il 16 dicembre. Un estremo e finale tentativo vista l'età, disse all'ANSA, per ribaltare una situazione "incomprensibile" alla luce dei nuovi test sul Dna.
Oggi, invece, Wakabayashi ha ammesso la sua emozione per la svolta, sicuro che il caso sia destinato a creare un dibattito su giustizia e pena capitale, malgrado i sondaggi ("facili da orientare") la diano come sostenuta dall'80 della popolazione.
"Un giudizio formidabile e storico", secondo Kenji Yamagishi, a capo dell'Associazione degli avvocati nipponici.
Raggiunto dalla sorella Hideko, l'ex pugile si è rifiutato in un primo momento di credere alla svolta, come raccontato da uno dei suoi avvocati: "Non può essere vero", ha detto prima di lasciarsi andare, ormai verso l'uscita, a un sofferto "grazie".
Hakamada è il sesto condannato a morte a ottenere in Giappone la revisione del processo dal 1945, mentre sono 130 i condannati in attesa dell'esecuzione nel braccio della morte.