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STATI UNITIContagiato due volte in pochi mesi, e la seconda volta in modo più grave

13.10.20 - 09:03
Non era mai accaduto che una seconda infezione di coronavirus fosse più grave della prima
Keystone
Fonte ats ans
Contagiato due volte in pochi mesi, e la seconda volta in modo più grave
Non era mai accaduto che una seconda infezione di coronavirus fosse più grave della prima
Lo studio suggerisce cautela anche da parte di chi ha già avuto il Covid-19

NEW YORK - Un 25enne del Nevada si è ammalato di Covid-19 due volte nel giro di pochi mesi, e la seconda volta con sintomi più gravi.

Il caso, che è stato oggetto di studio e di un articolo su Lancet, ripreso dalla Bbc, solleva interrogativi sull'immunità dei contagiati guariti, anche se i casi di doppia infezione restano rari. E suggerisce cautela anche a chi dal Covid-19 è già uscito una volta.

Il 25enne statunitense, che non aveva problemi di salute o difetti immunitari noti che lo rendessero particolarmente vulnerabile al coronavirus, ha manifestato i primi sintomi, non troppo gravi, il 25 marzo: mal di gola, tosse, mal di testa, nausea e diarrea. Il 18 aprile è risultato positivo per la prima volta. Il 27 non aveva più sintomi e in entrambi i test svolti il 9 e il 26 maggio è risultato negativo.

I sintomi però si sono riaffacciati il 28 maggio. Il 5 giugno risulta nuovamente positivo con gravi sintomi respiratori tali da richiederne il ricovero in ospedale.

Gli scienziati affermano che non può essersi trattato di una recidiva del primo contagio: un confronto dei codici genetici dei virus analizzati nelle due occasioni ha mostrato che erano troppo diversi per essere causati dalla stessa infezione.

«I nostri risultati indicano che un contagio potrebbe non proteggere necessariamente da future infezioni», ha detto il dottor Mark Pandori, dell'università del Nevada.

Doppi contagi si sono registrati a Hong Kong, in Belgio e nei Paesi Bassi ma mai il secondo era stato più grave. È accaduto in Ecuador, dove però il paziente non è arrivato all'ospedalizzazione. «È troppo presto per dire con certezza quali siano le implicazioni di questi risultati per qualsiasi programma di immunizzazione - ha detto un altro medico coinvolto nella ricerca -. Ma confermano il fatto che non sappiamo ancora abbastanza sulla risposta immunitaria a questo virus».

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