Come sono da leggere le dure parole contro Trump e i suoi alleati pronunciate dal presidente russo settimana scorsa? Un’esperta di questioni internazionali ci aiuta a farci un’idea
LUGANO - «La Russia sarà costretta a schierare contromisure non solo contro i territori che ci minacciano direttamente ma anche nei confronti dei centri decisionali che stanno dietro allo schieramento di missili che ci minacciano». Parole durissime, quelle pronunciate da Vladimir Putin in occasione del suo messaggio annuale davanti alle Camere unite del Parlamento russo. Come mai l’inquilino del Cremlino ha usato toni così netti contro gli Stati Uniti e i suoi alleati? Come vanno lette queste frasi in un contesto più ampio che tenga conto anche della situazione interna russa? Ce lo siamo fatti spiegare da Eleonora Tafuro Ambrosetti, ricercatrice dell’area Russia, Caucaso e Asia centrale dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale italiano.
Come si è giunti a toni così accesi come quelli usati mercoledì da Putin?
«Da tempo i rapporti tra Stati Uniti e Russia stanno attraversando una fase veramente critica. C’era stato molto entusiasmo con la politica di “reset” di Obama e poi con l’elezione di Trump, che in Russia veniva dipinto come un presidente amico. Poi ci si è resi conto che si tratta di un individuo molto volatile e che mette gli interessi americani prima di tutto. I russi hanno inoltre scoperto che l’opposizione interna Usa, tutti i vincoli istituzionali e il sistema di “check and balances” americano rendono veramente difficile per Trump portare avanti politiche favorevoli a Mosca. Sono stati due momenti di ottimismo che si sono poi scontrati con una realtà che vede di nuovo la Russia contrapporsi agli Stati Uniti in maniera forte».
Stiamo assistendo a un ritorno della Guerra fredda?
«Dobbiamo stare attenti a fare dei paragoni storici e a parlare di “nuova Guerra fredda”, anche se effettivamente stiamo andando incontro a qualcosa di simile. Lo dimostrano una serie di elementi, dalla corsa agli armamenti alla competizione in territori “terzi” come il Venezuela o la Siria. È vero al contempo che il contesto internazionale è completamente mutato rispetto a quello di allora: non siamo più di fronte a un bipolarismo e bisogna considerare la Cina e l’Unione Europea. Ci troviamo innegabilmente dinanzi a un momento di tensione tra Mosca e Washington».
Forse Putin ha interesse ad alzare la voce per mascherare i problemi interni (in primis la dilagante povertà)?
«Subito dopo l’annessione della Crimea nel 2014 il punto di vista di molti analisti era: ok, le condizioni economiche sono peggiorate ma la politica estera aggressiva è usata da Putin per avere successo tra il popolo. Questo è in parte vero anche oggi ma dobbiamo cogliere le avvisaglie di un cambiamento importante: l’indice di popolarità di Putin sta perdendo tantissimo. Si parla di un calo di 20 punti al 65% - che per gli standard occidentali resta comunque tantissimo - dovuto al deterioramento delle condizioni di vita dei russi. Il presidente ha dovuto portare avanti delle riforme impopolari (pensioni, Iva) che hanno indotto i russi addirittura a scendere in piazza. Questo Putin non lo può più ignorare».
Com’è cambiato negli ultimi anni l’uso che Putin fa nei suoi interventi dell’argomento Stati Uniti?
«Cinque anni fa si è scritto moltissimo sulla retorica nazionalista di Putin in chiave elettorale. Infatti abbiamo visto che l’indice di popolarità è schizzato alle stelle. Per quanto la Russia odierna possa essere definita una democrazia illiberale (o “guidata”, per usare un termine che si usa molto in accademia), Putin si trova a dover fare qualcosa di fronte a questo scontento popolare. Nel suo discorso era un po’ come se Putin offrisse “pane e missili”: va bene lo scontro con gli Stati Uniti, ma a un certo punto ai russi finirà d’importare lo status internazionale del Paese, quando loro non riescono ad arrivare alla fine del mese. Quindi ha aggiunto una serie di promesse sul miglioramento della vita della popolazione e ha menzionato politiche di aiuto alla natalità che risolvano il deficit demografico attuale».
Effettivamente una nazione che conta al suo interno 19 milioni di poveri è una bomba a orologeria…
«Negli anni ‘90 la Russia ha passato un decennio veramente nero, con una crisi economica fortissima accompagnata dall’instabilità politica e alla criminalità dilagante. Prima la gente tendeva a pensare a quegli anni bui e a considerare che, rispetto ad allora, c’è molto più benessere. Però ora, con le condizioni di vita sempre più difficili, quel termine di paragone è diventato meno potente. Putin si rende conto che c’è un limite a ciò che i russi sono disposti a sopportare e oltre il quale le cose si fanno pericolose».
Quindi puntare il dito contro il nemico americano è un’arma di distrazione di massa?
«È qualcosa che c’è sempre stato, anche nell’Unione Sovietica. Fa parte della storia russa prendersela con quell’attore che non riconosce il tuo status internazionale, e non parliamo solo degli Usa: nei primi anni Duemila era accaduto lo stesso con l’Unione europea».
C’è poi la Cina e i vari piani di sfida (commerciale, monetaria, tecnologica) con gli Stati Uniti: Mosca come sta guardando a questa “guerra” tra Washington e Pechino?
«Mosca sta tentando di usare il rapporto con la Cina in modo opportunistico. Un esempio risalente sempre al 2014: quando Usa e Ue imposero le prime sanzioni per l’annessione della Crimea, una delle prime cose che Putin fece fu di firmare un contratto di vendita di gas con la Cina. Un accordo che da anni non si riusciva a concludere; poi, guarda caso, Putin firmò il contratto e lo diffuse come prova inequivocabile che la Russia non era isolata e che guardava a est.
La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti non fa altro che avvicinare ancora di più Mosca e Pechino. Che hanno delle divergenze storiche e degli squilibri molto forti e quindi, secondo me, la Russia sta passando dalla padella alla brace. La Cina è sempre stata un vicino scomodo ma la Russia è disposta a sorvolare su molti motivi di attrito quando si tratta di creare un fronte anti-occidentale».
È un matrimonio d’interesse e un giorno la Russia si accorgerà che, forse, il vero nemico è la Cina?
«Ci sono molti segnali che dovrebbero preoccupare Mosca però sono un po’ scettica nel definirlo solamente un matrimonio d’interesse. È un’unione basata anche su valori condivisi: se si guarda ai comportamenti di voto all’interno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si vede un certo allineamento su alcuni valori che entrambi reputano fondamentali. Penso alla sovranità, alla stabilità politica… Ci sono cose che portano le due potenze ad avere una visione del mondo simile».
Tornando infine allo scontro Russia-Stati Uniti: quale credi che sia il teatro dove si verificheranno le frizioni più importanti? La Siria, il Venezuela o altri ancora?
«Sulla Siria sono più preoccupata dell’evoluzione dell’alleanza tra Russia, Turchia e Iran di quanto lo sia dello scontro con gli Usa. I quali cercano, già da Obama, il disimpegno dal Medio Oriente. La crisi internazionale che mi sta più incuriosendo è quella del Venezuela, perché riporta a uno scenario globale da Guerra fredda. Abbiamo un Paese dove la Russia ha degli interessi commerciali fortissimi - soprattutto energetici - e con un debito che Mosca non vuole perdere e nello stesso tempo gli Stati Uniti che vogliono imporre il proprio candidato e ancora una volta portano avanti questa narrativa di democratizzazione che Trump sembrava aver accantonato. L’evoluzione di questa crisi andrà tenuta sotto controllo per tutta una serie di equilibri regionali e globali».