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CANTONEAiuto dopo un trauma: «Non ci si abitua mai»

13.12.18 - 18:31
Il coordinatore del Care Team Ticino Massimo Binsacca ci spiega come intervengono e come riuscire a "non portarsi a casa" i problemi altrui
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Aiuto dopo un trauma: «Non ci si abitua mai»
Il coordinatore del Care Team Ticino Massimo Binsacca ci spiega come intervengono e come riuscire a "non portarsi a casa" i problemi altrui

LUGANO - 53 interventi, 269 persone assistite, 337,5 ore di intervento. Sono questi i numeri dell’anno in corso del Care Team Ticino, servizio di sostegno psicosociale in caso di eventi traumatici. Un servizio attivo tutti i giorni, 24 ore su 24, che garantisce supporto a chi è direttamente o indirettamente coinvolto in catastrofi, incidenti, infortuni, omicidi, suicidi. Dietro a questi numeri ci sono delle persone che si mettono a disposizione per prestare aiuto, militi volontari della protezione civile che ascoltano e sostengono chi subisce un trauma.

Abbiamo parlato con il coordinatore del Care Team Ticino Massimo Binsacca. Dal 2015 a oggi si è recato spesso sul luogo di una tragedia.

Concretamente, come avviene un intervento?
«Viene attivato dagli enti di primo intervento (in primis polizia e autoambulanze) quando ritengono che le persone coinvolte hanno bisogno del nostro supporto e lo desiderano. Ci rechiamo sul luogo dell’evento, al pronto soccorso o al domicilio. Dal momento dell’allarme, interveniamo con massimo 90 minuti».

Chi viene mandato?
«Ci sono due persone di picchetto, generalmente un uomo e una donna. A dipendenza dell’evento può esserci un rinforzo. I care givers sono 50. Tutti militi incorporati nelle 6 regioni di protezione civile con una formazione specifica nell’ambito dell’aiuto psicosociale d’urgenza».

Tutti i militi ricevono questa formazione?
«No, sono dei volontari che sentono di poter svolgere questo tipo di attività. C’è un colloquio di reclutamento, con una psicologa, in cui vengono valutati. Se sono idonei, vengono formati e sono pronti a operare».

Come vengono preparati concretamente?
«C’è la formazione di base e gli esercizi d’impiego. Lavoriamo anche con Lugano Airport, con polizia, pompieri, servizio autoambulanze. Simuliamo degli interventi, dei colloqui. L’esperienza, poi, è quella che insegna di più».

Ma non serve uno psicologo per certi tipi di trauma?
«Abbiamo il supporto degli psichiatri del Cantone. In un intervento d’urgenza, comunque, non si fa alcuna psicoterapia. Si tratta di un intervento psicosociale che cerca di evitare effetti da stress post-traumatico. L’intervento in urgenza può avere un effetto positivo e la persona può non avere poi bisogno di andare in terapia. Le statistiche dicono che il 5-10% di quelli che aiutiamo vanno in terapia».

Come capite quali sono le necessità della persona?
«Seguiamo la sua onda. Lavoriamo con l’ascolto attivo. Parliamo con la persona, che ci racconta quello che ha vissuto direttamente o indirettamente. Cerchiamo di farle rivivere quello che è successo, quindi rimettere a posto le idee. Offriamo delle proposte e magari delle soluzioni, che però devono scaturire dalla persona stessa».

Qual è uno dei casi che l’ha colpita di più?
«Ogni evento ha la sua storia. Quando sono coinvolti dei minori cambia un po’ il registro. Anche per noi operatori diventa più difficile dal lato emozionale. Ad esempio nei casi di suicidio possono nascere dei sensi di colpa: magari la sera prima marito e moglie hanno avuto una discussione e lui il giorno seguente lui si è tolto la vita. Dobbiamo lavorare anche sui sensi di colpa della persona».

Con i minori ci vuole un atteggiamento differente?
«Per il bambino è più difficile parlare, dipende dall’età, dal carattere. Noi facciamo corsi di perfezionamento puramente sui bambini: come lo tratto, che percezione ha della morte, come gliela si può comunicare».

Come fate, quando tornate a casa, a lasciare queste storie fuori dalla porta?
«Per far parte del Care Team bisogna avere una stabilità psicofisica. Se io dovessi subire un lutto in famiglia, ad esempio, potrei non essere così predisposto all’aiuto. Il quel caso viene quindi cambiato il picchetto. Se intervengo nel caso della morte di un bambino di 5 anni e ho un figlio della stessa età, potrebbe sorgere il rischio di “transfer”. Per questo a fine intervento i due care givers parlano tra loro, è un momento di condivisione che può aiutare. Poi sentono me, il coordinatore, mi raccontato tutto. Se questo non dovesse bastare, anche l’operatore può avere bisogno di andare in psicoterapia».

Lei, quindi, in quanto coordinatore è quello che “subisce” tutte le storie di traumi?
«Io in 4 anni ho svolto sul campo tra i 40 e i 50 interventi. Sento tanto, ma mi sono riscoperto. Non pensavo di avere certe risorse. Ma ho una resistenza che mi consente di fare questo tipo di lavoro».

Esistono le parole giuste da dire a chi ha vissuto un trauma?
«Stiamo più attenti a non dire le “frasi killer”. Ad esempio chiedere a chi ha perso un figlio “come stai?”. Ci sono anche delle frasi che si possono utilizzare per entrare in empatia con la persona».

Vi trattano mai male?
«Può succedere. Una volta una persona mi ha detto “Chi cavolo siete, che cavolo ci fate qua?”. Da lì siamo ripartiti. Dopo 4-5 ore di colloquio si è scusata. Ma a chi subisce il trauma viene chiesto prima se desiderano il nostro supporto».

Chi ha subito il trauma, può ricontattarvi dopo qualche giorno?
«Un intervento è giustificato fino a 7 giorni dall’evento. Poi ci deve essere una presa a carico del psicoterapeuta. Noi spieghiamo che ci sono delle reazioni normali dopo il trauma, ma se perdurano per settimane e mesi serve aiuto più specialistico».

Tra i 53 interventi di quest’anno, c’è l’incidente del pullman tedesco sull’A2 in ottobre. Che ricordo ha?
«A Sigirino la collaborazione ha funzionato molto bene. Ero presente io come coordinatore, con 4 care givers. In quel caso i ragazzi parlavano tedesco, ma siamo riusciti ad ascoltarli e a fornire supporto di gruppo e individuale».

Come fate a non affezionarvi alle persone a cui prestate supporto?
«Essendo d’urgenza, noi interveniamo e poi chiudiamo l’intervento. Il caso che “è durato di più” è di 4 giorni, dove ci è stato chiesto di partecipare al funerale. Se questo è anche una “chiusura del cerchio” per noi, magari andiamo, altrimenti preferiamo non prendere parte. Noi non possiamo seguire le persone sul lungo tempo e loro lo sanno. Altrimenti gli interventi si accumulerebbero e rischieremmo il bornout».

A ogni evento, però, si reagisce in maniera differente...
«Tante volte si dice che si fa la cosiddetta “crosta”. Ma poi, siamo pur sempre persone. Una volta assimili bene l’intervento, ma un’altra in cui magari sei più sensibile, o hai un problema tuo, lo assorbi meno bene».

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