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CANTONEBasta regole uguali per tutti: «Sono la morte delle aziende»

10.10.17 - 06:11
Sul lavoro la diversità - razza, religione, ma anche età, situazione familiare, abitudini - è ricchezza: se valorizzata con trattamenti ad hoc invece che frustrata con norme standard, genera profitto
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Basta regole uguali per tutti: «Sono la morte delle aziende»
Sul lavoro la diversità - razza, religione, ma anche età, situazione familiare, abitudini - è ricchezza: se valorizzata con trattamenti ad hoc invece che frustrata con norme standard, genera profitto

Diversità: fastidio o risorsa?

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Questi sondaggi non hanno, ovviamente, un valore statistico. Si tratta di rilevazioni aperte a tutti, non basate su un campione elaborato scientificamente. Hanno quindi l'unico scopo di permettere ai lettori di esprimere la propria opinione sui temi di attualità.

BELLINZONA - Non pensiamo alle grandi differenze, quelle che fanno discutere e indignare quando sono vilipese: razza, religione, orientamento sessuale. Ne bastano di più modeste, quotidiane: la laurea in filosofia e quella in matematica, la passione per lo sport o per i libri, il single accanito o la madre che concilia il lavoro con i figli. Perché la diversità è ricchezza, anche in azienda; anzi, soprattutto. Risorsa da valorizzare, per generare o incrementar profitti altrimenti standard. Si può guardagnare senza nulla fare di troppo, solo dare a ciascuno il ruolo e i tempi giusti, calibrati sulle sue esigenze, attitudini, predisposizioni personali. Così, più veloce in Europa e piano piano anche in Ticino, si fa strada la figura del diversity manager, evoluzione del tradizionale "responsabile del personale" incaricato di mettere a frutto la diversità implicita nel gruppo; colui che la fa entrare in azienda, la declina e rende accettabile a chi, a torto, considera ingiustizia o trattamento di favore vedere un collega che fa orari differenti, uguali tutti ma qualcuno più uguale degli altri.

Eppure la voglia di livellare tutti alla stessa maniera, pur di mettere a tacere il malumore sciocco, fa male all'azienda che non vuole avere grane. Andrea Martone, docente alla Supsi, lo diceva già nel 2009, nel libro "Diversity management. La diversità nella gestione aziendale" edito da Ipsoa. Lo ripeteva nel 2011, in occasione di un convegno che «propone una nuova prospettiva: non gestire o attenuare, al contrario valorizzare le differenze come strumento per
accrescere la produttività, il successo competitivo e la redditività dell’azienda. Come gestire le diversità? L’azienda dovrebbe adottare modelli specifici e diversificati per ciascun individuo e per ciascun gruppo di popolazione aziendale». Lo ribadirà anche fra qualche giorno ai dirigenti cantonali, in occasione di un incontro volto a sensibilizzare sulla necessità di una figura che, ammette, è improbabile trovi oggi spazio nelle piccole imprese alle prese con problemi di bilancio, ma potrebbe in quelle più grandi.

Un concetto che fatica ad attecchire. Otto anni sono passati, grandi progressi nessuno. Professore, è vero: nulla è cambiato?

«Qualcosa sì. È cambiato l'approccio. Una volta era più lagnoso. La diversità era vissuta come un fastidio da gestire e un problema da risolvere per ragioni etiche, morali, legali. "Poverini, vanno aiutati", si pensava, riferendosi per lo più alla parità di genere e alla tutela delle minoranze».

E adesso?

«Ora è diventata una risorsa, un'opportunità utile a essere più competitivi. Valorizzarla è un interesse delle aziende: la diversità è ricchezza, in senso figurato ma anche letterale. Inserire nell'organico personalità differenti può far guadagnare di più. La diversità va difesa e celebrata non perché è giusto, ma perché conviene: quale argomento più forte di questo, per un'azienda? È anche meno umiliante per il "diverso"». 

Chi è il diverso, oggi?

«Il campo è vasto ma si può riassumere in quattro livelli. La diversità legata alla personalità del singolo. La diversità legata alle cosiddette "dimensioni interne": genere, etnia, religione, capacità. Ultimamente si fa sempre più strada anche l'età, molto attuale: con l'allungamento dell'età lavorativa, che ormai copre cinque generazioni, si va dal ragazzo che usa whatsapp all'adulto che fatica a usare la mail. Anche l'orientamento sessuale è abbastanza recente. Sono quelle diversità su cui finora si è concentrato il concetto di discriminazione».

C'è dell'altro ancora?

«Il terzo livello è quello della "dimensione esterna": stato familiare, maritale, abitudini. Infine c'è la dimensione organizzativa, legata a categorie di persone che entrano in contatto fra loro in una stessa realtà. Amministrativi, venditori, ingegneri, sociologi: l'incontro crea un cortocircuito. Gli studi dicono che è più difficile far stare insieme un ingegnere, un amministrativo e un venditore americano di un ingegnere americano, un ingegnere indiano e uno europeo. Questa diversità a volte è più forte della razza». 

Alla fine, ogni individuo è diverso dall'altro: che si fa?

«Il rischio è dire che tutto è diversità, dunque niente lo è. Oggi l'attenzione si concentra sulla dimensione interna, con una preponderanza su età e orientamento sessuale. Ma lo spazio dove le imprese sono chiamate a investire è quello del quarto livello».

Il "diversity manager" è alle porte?

«In Ticino abbiamo per lo più piccole e medie imprese. Davanti a queste dimensioni è difficile parlare di una figura professionale specifica, ma quando le dimensioni aziendali crescono, può cominciare a far capolino. Qui è ancora merce rara, ma è fisiologico che sia così. Serve un cambiamento culturale. Il piccolo imprenditore stesso deve diventare promotore della diversità. L'Unione Europea ha stilato una direttiva con le buone pratiche che il diversity management deve adottare».

Management, non manager: che cosa cambia?

«Non è necessario che ci sia qualcuno deputato a fare quella cosa. Si può cominciare a inserire il tema "diversity" nel processo di selezione. Faccio un esempio: se lavoro prevalentemente con l'estero, assumerò qualche lavoratore straniero. Se ho tutti uomini in organico, assumerò una donna. È bene diversificare la composizione del personale, per trarre profitto dalle differenti sensibilità. Sulla carta è una bella cosa. Ma è un lusso». 

Ai piani bassi, spesso la valorizzazione della diversità altrui è vissuta come una discriminazione verso se stessi. Siamo quasi al paradosso. Come si fa a far passare il messaggio?

«Nelle aziende si cerca di semplificare, un po' per pigrizia, un po' per cultura. Del resto, tutte le organizzazioni nascono per semplificare, salvo poi non riuscire e complicare ancora di più le cose. Nella gestione del personale, si pensa sia giusto gestire ciascuno alla stessa maniera dell'altro, con regole uguali per tutti. Ma siamo sicuri che le stesse regole per tutti siano la cosa giusta?»

Lei come risponde?

«Ovviamente no, ma evidentemente è un percorso faticoso. All'interno di una realtà dove, anche solo fra uomini e donne, le esigenze sono diverse, è difficile accettare regole ad hoc. È per questo che si tende a far finta di niente. Ma il prezzo che si paga è alto. Si perde in ricchezza».

Sarà sempre così?

«La mia impressione, se penso all'effetto normalizzatore che ha avuto la tv e ora i social, è che si stia andando verso una preoccupante attenuazione delle diversità, verso una standardizzazione. Se poi pensiamo alle macchine intelligenti, la diversità non ha più ragion d'essere. Magari potrà diventare una risorsa nel tempo libero».

Nessuna speranza?

«La standardizzazione è una teoria vecchia. Risale al fordismo, al taylorismo. Dopo una fase in cui abbiamo dato più attenzione alle persone, si torna indietro, a un approccio taylorista».

Perché andare a Palazzo a parlare di diversità, allora?

«Perché il futuro non è ancora qui, né è detto che sarà come temiamo. In questo momento, c'è ancora spazio per fare qualcosa. In Cantone, soprattutto, c'è tanta diversità che merita di essere valorizzata. Non sarebbe sbagliato cominciare anche nelle imprese. Figure diverse, trattate in maniera diversa, favoriscono la creatività». 

Perché ancora non si riesce: è un problema di "cultura" o, peggio, di pace sociale?

«È un problema di pigrizia e di minimizzazione dello sforzo. Valorizzare la diversità comporta sforzi, come quello di ricreare un equilibrio quando lo si turba. E in economia si tende al massimo risultato con il minimo sforzo. Anche creare modelli di gestione diversificati è faticoso: vanno studiati, elaborati, comunicati. Ma è una percezione a corto raggio, una visione miope, che guarda all'oggi, non va oltre il proprio naso. Questa è la morte delle aziende. Il business è di chi sa guardare più in là». 

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COMMENTI
 

gigipippa 6 anni fa su tio
Purtroppo ancora oggi non si è capito che nelle aziende bisogna prendersi maggior cura della minoranza del personale, che ha le competenze e sa fare il lavoro.

SosPettOso 6 anni fa su tio
Se le regole diverse sono discusse e condivise da tutti ognuno riesce ad esprimersi al meglio. Se invece sono calate dall'alto, anche se ben studiate, generano solo incomprensioni e malumori.
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