Esiste un modo migliore dell'altro di dire a una persona che ha perso il posto? Secondo il laboratorio cantonale di psicopatologia del lavoro, senza dubbio: «Una maniera sbagliata amplifica lo shock»
VIGANELLO - Esiste un modo giusto per dire a una persona che ha perso il lavoro? Uno sbagliato? Uno migliore dell'altro? Le critiche di scarsa sensibilità rivolte la settimana scorsa contro le «convocazioni in ufficio» di Credit Suisse, e la presa di posizione della banca che li ha definiti piuttosto «colloqui» informativi, sembrerebbero dire che no: tutto dipende dal punto di vista. Eppure, secondo chi da anni ha a che fare con i lavoratori licenziati, anche la maniera conta: e molto più di quanto si sia disposti a credere. Dall'ufficio cantonale di psicopatologia di lavoro a Viganello, dove ogni anno vengono affrontati un centinaio di casi individuali e una decina di gruppo, il responso è chiaro: «Lo shock può risultare amplificato».
Liala Cattaneo, coordinatrice del Laboratorio di psicopatologia del lavoro, dell'Organizzazione sociopsichiatrica cantonale, esiste un modo migliore di altri per dire a qualcuno che ha perso il lavoro?
«Un modo esiste, un modo umano. La reazione però cambia da individuo a individuo, ognuno reagisce alla sua maniera. Molto dipende dall'età, dagli anni di servizio presso l'azienda, dall'identificazione che si ha con quest'ultima».
Se "un" modo giusto non c'è, qual è allora quello sbagliato?
«Quello fatto di fretta, in modo freddo, magari non dal superiore diretto ma da altre persone. Ho sentito di collaboratori licenziati via sms. Il modo in cui si comunica è fondamentale: una comunicazione sbrigativa e poco empatica addolora di più».
Davvero l'atto del licenziare può aggravare il licenziamento in sé?
«Certo. Il modo amplifica lo shock. Diverse persone che si sono rivolte a noi ce l'hanno detto apertamente. Lamentavano più la maniera con cui sono state informate che il licenziamento stesso».
In che modo incide?
«Lede la dignità personale. Lo dico con le parole che abbiamo sentito usare dai nostri pazienti: "Mi hanno fatto sentire una nullità", "Allora ero soltanto un numero", "Vuol dire che non valgo nulla"».
Come si fa a dire che è finita?
«Premesso che la notizia è brutta e fa sempre male, un minimo di empatia aiuta. Senza alcun riconoscimento, senza un "mi dispiace", senza una spiegazione che abbia un senso agli occhi di chi riceve la notizia, genera maggiore amarezza e sofferenza».
Tutto ciò non rischia di essere vissuto come un'ipocrisia?
«Dipende dal rapporto che il dipendente ha avuto in precedenza con il management. Se è sempre stato distaccato, informale, il calore è vissuto come fasullo. L'empatia deve essere genuina, altrimenti peggiora solo le cose».
Quali sono le conseguenze psicologiche di un licenziamento?
«Ho visto persone che l'hanno vissuto come un lutto. Sconcerto se inatteso, rabbia, frustrazione, paura. In alcuni casi è stato necessario impostare un processo di elaborazione del lutto simile a quello di quando scompare una persona cara. In questo caso, il distacco è dal luogo di lavoro, dai colleghi, dai ritmi quotidiani, dal proprio ruolo, dalla propria identità professionale».
E quelle di un "brutto" licenziamento? Un licenziamento può essere diverso da un altro?
«Sì, come detto prima il modo può attenuare l'impatto della notizia. In un'azienda dove prevalgono dinamiche professionali improntate alla produttività, più flessibili e dinamiche, è un po' meno complicato farci i conti e forse ci sono meno aspettative di lunga durata. Ci sono invece realtà aziendali più familiari, diverse per cultura e struttura, dove il dipendente si affeziona e il licenziamento fa male. Anche l'età è un fattore importante: magari un ventenne guarda avanti più fiducioso rispetto ad un cinquantenne che sviluppa una maggior paura di non trovare più un nuovo posto di lavoro».
È cambiato il modo di vivere il licenziamento negli anni?
«La congiuntura economica attuale non aiuta. Non dico che vent'anni fa fosse più semplice, ma oggi c'è una maggior paura di non trovare più un altro posto di lavoro o di non trovarne uno simile rispetto a quello che si è perso».
Chi viene da voi?
«Persone che sviluppano un disagio psico-sociale in seguito a una situazione di stress o burnout, conflitto o mobbing. Oppure disagi conseguenti a un licenziamento o una situazione di precarietà. Osserviamo sempre più spesso questa dicotomia: la sofferenza di chi non ha lavoro e la sofferenza di chi lavora troppo».
Come intervenite?
«Facciamo una prima valutazione psicologica, sociale e professionale della situazione. Cerchiamo di capire se c'è necessità di una presa in carico psicologica della persona piuttosto che di un accompagnamento socio-professionale o di un intervento in azienda. Il contatto con le aziende per noi è importante, sia per scopi preventivi che di mediazione quando necessario».
Il Ticino come licenzia?
«Posto che la nostra visione è parziale, basata su quel che ci dice l'ormai ex-dipendente, in genere non si verificano casi clamorosi. Ricordo una persona licenziata sulla segreteria telefonica: era stata chiamata, non aveva risposto, il superiore aveva lasciato un messaggio. Ma si tratta di un caso isolato. Mi sono capitati licenziamenti via e-mail, questo sì: per lo più nelle aziende con una struttura più complessa, dove i rapporti con il dipendente sono più formali. In genere possiamo affermare che la situazione qui non è drammatica, ma è chiaro che l'invito che facciamo alle aziende è sempre quello di curare il rapporto umano e la relazione anche e soprattutto quando si devono dare brutte notizie».
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