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L'OSPITENoi, noi stessi e gli altri

05.12.17 - 11:00
Matteo Quadranti, Gran consigliere
Tipress
Noi, noi stessi e gli altri
Matteo Quadranti, Gran consigliere

Le domande sulle nostre identità personali e sulle concezioni del sé sociale sono antiche quanto il paradosso della nave di Teseo narrata da Plutarco. La questione era: se sostituisco man mano i legni invecchiati o rotti della nave, alla fine la nave resta pur sempre lo stesso vascello o si trasforma in un vascello differente. Tanto la nave quanto noi stessi, sia come individui sia come corpo sociale, siamo costituiti da parti interagenti e coordinate, ma resta il problema delle modifiche che tali componenti subiscono. Le cellule del nostro corpo sono sostituite nel tempo da altre cellule e, ciò nonostante, la nostra fisionomia resta la stessa. Che cosa è dunque il collante che garantisce l’unità e la coordinazione di un sistema complesso consentendogli di essere e persistere in quanto ente unico e continuo (senza spaccature) in differenti luoghi e tempi attraverso una molteplicità di esperienze? L’infosfera (quella delle tecnologie e dei social), sta trasformando il corpo sociale e noi, ma non la respingiamo, benché invasiva, perché abbiamo deciso di cogliere la sfida e i lati positivi che la tecnica ci darà. Il fatto che giungano in Svizzera degli stranieri ci cambierà? Temiamo che queste nuove “cellule” ci renderanno meno “noi stessi” o fedeli al nostro modo culturale di essere? E se ne fossimo rinvigoriti demograficamente in un occidente che non procrea?

L’ideale democratico e i diritti fondamentali – che col federalismo costituiscono i tre pilastri del tempio elvetico - hanno una origine comune: valorizzare l’individuo, proteggendolo dai poteri pubblici e affermando certi suoi diritti nati dal liberalismo politico che li vuole inviolabili. La vita è troppo ricca per essere uniforme. I diritti fondamentali hanno un ruolo in ogni società al fine di garantire che la ricchezza umana non sia ridotta ai canoni di un pensiero unico, qualunque esso sia. Questi diritti sollevano però anche la questione a sapere se debba prevalere l’interesse del singolo o quello della popolazione che il potere politico rappresenta. Il funzionamento dello Stato e del potere si fonda su norme generali e astratte: le leggi. Più culture saranno compresenti e più difficile risulterà trovare un consenso sulle norme da adottare e maggiori saranno le persone che stimeranno essere toccate nei propri diritti fondamentali. Il multiculturalismo pone tre sfide dal profilo giuridico: l’adozione di leggi, la loro accettazione da parte di tutta la popolazione e l’aumento dei conflitti sui diritti fondamentali. In Svizzera l’ideale democratico funziona bene poiché fondato su una cultura generalizzata della ricerca politica del consenso ai fini di un vivere armonioso. Pensiamo al divieto del porto del burka in pubblico: sapere se è conforme o meno alla libertà religiosa o se deve prevalere l’interesse pubblico (la sicurezza), è questione difficilmente risolvibile solo dal profilo giuridico e quindi dei tribunali. L’interpretazione di una norma è un atto della volontà che consiste non nel conoscere “il” senso, ma nello scegliere e decidere “un” senso tra diversi possibili. La Politica deve trovare la concordanza, a monte.

Esercizio non facile. La vita è complessa, come lo sono i rapporti umani in una società moderna e multietnica. Dietro l’uomo semplificato (voluto dalla tecnologia e dal consumismo) e le soluzioni semplici (di certe forze politiche) in realtà si annida molta brutalità e intolleranza e perdita di valori etici kantiani come cristiani. Le sfumature e le contraddizioni che rendono gli esseri umani, appunto, umani, scompaiono di fronte alle paventate semplici certezze assolutistiche. Stiamo diventando comunicativamente autistici: in difficoltà nella comunicazione e nell’immaginazione sociale. Non c’è comprensione reciproca perché, con tutti i flussi migratori di varia origine e causa, si sta generando un habitat sempre più eterogeneo e non c’è immaginazione o visione sociale di una possibile e positiva società multietnica. Questo scatena l’impulso ad isolarci, a chiudere la porta a doppia mandata e cessare la comunicazione che si sostituisce con l’imposizione di un solo modello culturale fondato sulla paura dell’altro (straniero qualsiasi) e dell’ignoto (digitale). In realtà la soluzione sta nell’apertura controllata, nel mettere il mondo in comune e interagire in modo laico con la differenza.

Non sorprenderà che la voglia di chiusura in sé si sia sviluppata con l’individualismo del benessere economico degli ultimi decenni e che stia proseguendo con il rifugio nella vita online (Second Life, social network, soliti “amici e followers” con cui ci identifichiamo). La vita online ci protegge da quella che viene percepita come la sconfortante diversità della vita offline (quella reale che mi pone di fronte a chi non la pensa come me). Rinunciamo a socializzare, a cooperare e alla solidarietà (quella cristiana a cui ci si appella come elemento identitario). La vita online e quella dei protezionismi è una confort-zone, staccata dal caos, dall’ingresso altrui e di qualunque problema. Basta un clic sul tasto CANC o BLOCCA, senza nemmeno l’imbarazzo di dire il proprio disappunto o guardare in faccia con menefreghismo l’altro essere umano. Così cadono nell’oblio capacità sociali e solidali che sono state e sono altrettanto tipiche del nostro Paese quanto il segreto bancario, la milizia e la democrazia diretta. Chiuderci per mitigare le pressioni dall’esterno sarebbe un espediente che non cura il disturbo “autistico” anzi lo aumenterebbe: il divario comunicativo si accrescerebbe e sappiamo che comunque non c’è una safety-zone né online (vista la pirateria) né offline (le migrazioni non si fermano, semmai bisogna regolarle). Cedere la nostra identità alle memorie dei PC e della rete ci svuota, delle relazioni umane, dei sentimenti di pietà, dei contatti di prima mano al posto dei quali ci affidiamo a quelli mediati da un terzo (lo schermo, internet). Nel “iPhone” non è la “i” di “Io” ad essere in maiuscolo, ma la “P” dell’oggetto a cui io cedo buona parte del mio essere. Consumiamo i beni comuni e noi stessi, nel guardarci in modo autoreferenziale nello specchio, narcisi con l’obiettivo fotografico che non si apre più sul mondo ma che chiude noi dentro la parentesi di un selfie che ci conferma di esistere. Il narcisismo è una prospettiva rassegnata, non può essere la prospettiva di un PLR che pensa alle generazioni che verranno. Liberale è essere libero di pensiero e critico verso i poteri manipolatori. Certa umanità usa le religioni per vivere passionalmente vite parallele. Nei periodi più fruttuosi del cattolicesimo i miseri venivano facilmente manipolati, come oggi fa il radicalizzato islamista, promettendo che gli ultimi saranno i primi. Falsa promessa insita anche nella dittatura del proletariato. Forse più di identità converrebbe in questi casi parlare di identificazione. Quella di chi è in stato di rassegnazione o di bisogno verso chi gliela racconta, pro bono suo. Tutti fatti storici che il liberalismo ha combattuto o quantomeno di cui ha diffidato.

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