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LUGANO«Noi siamo un mezzo per far conoscere Fabrizio»

24.05.18 - 06:01
Sabato 2 giugno al Capannone delle Feste di Pregassona Pier Michelatti presenterà "Faber per sempre", un omaggio affettuoso a De André - con il quale ha suonato per oltre 15 anni
«Noi siamo un mezzo per far conoscere Fabrizio»
Sabato 2 giugno al Capannone delle Feste di Pregassona Pier Michelatti presenterà "Faber per sempre", un omaggio affettuoso a De André - con il quale ha suonato per oltre 15 anni

LUGANO - Una volta Fabrizio De André gli ha scritto: «Non sai il senso di sicurezza che provo nell’ascoltarti alle mie spalle mentre canto», salvo poi aggiungere che l’impresario dei tour gli dava «delle tangenti mostruose». Il destinatario di questo messaggio scarabocchiato sulla pagina di un’agenda è Pier Michelatti, bassista e collaboratore storico del cantautore ligure per oltre 15 anni. Il 2 giugno dalle ore 20, insieme a un gruppo selezionato di valenti musicisti, sarà al Capannone delle Feste di Pregassona con “Faber per sempre”, spettacolo già proposto lo scorso anno a Lugano. Un omaggio non solo in musica, ma anche tramite aneddoti sensazioni e ricordi, alla memoria di De André e al suo lascito musicale e culturale.

Com’è venire a suonare in Ticino?

«Per noi è molto piacevole. Siamo sempre ben accolti, come ovunque del resto, ma vediamo che in questa zona così come in Valtellina c’è particolare entusiasmo. Evidentemente qui Fabrizio è molto presente nei cuori del pubblico. Un altro motivo, molto più banale, è che siamo tutti piemontesi e quindi siamo vicini a casa».

Cosa si aspetta il pubblico da un omaggio a De André?

«Ho impostato questo spettacolo riarrangiando 3-4 pezzi. Tanti sbagliano a riproporre Fabrizio reinterpretandolo tutto, perché il pubblico si aspetta di sentire le canzoni con gli arrangiamenti originali. Ho ingaggiato un cantante che ha un timbro di voce basso, come serve per fare i suoi pezzi, ma che non somiglia per nulla a quella di De André perché non volevo correre il rischio di fare un’imitazione. Credo che dobbiamo essere come i guardiani del Louvre, che accudiscono e lucidano la Gioconda per farla vedere al pubblico. Noi siamo un mezzo per far conoscere Fabrizio e dobbiamo fare il nostro lavoro al massimo delle nostre possibilità, sul palco non dobbiamo essere noi i protagonisti».

Che caratteristiche ha lo spettacolo?

«Propongo un ricordo, racconto delle cose che sono successe in studio o in tournée che servono per far capire un minimo l’uomo e il personaggio De André, anche se è dura perché Fabrizio aveva queste due facce: una bella chiara e un’altra un po’ nascosta. Credo sia uno spettacolo piacevole».

Voi vi siete incontrati per la prima volta nel 1981: com’era lavorare con De Andrè?

«Era duro. Fin quando c’era Mauro Pagani, che era l’unico che riusciva a tenerlo a bada, le cose andavamo ma l’ultimo periodo eravamo un po’ allo sbando per quanto riguarda le prove e l’organizzazione. Ogni tanto Fabrizio rompeva le palle all’uopo, ma altre volte senza motivo. Non facendo altre tournée, al contrario di noi, non sapeva come funzionava la parte live e quindi pretendeva che, dopo aver preso i più bravi musicisti d’Italia e fatto 30-40 giorni di prove, fossimo perfetti già dal primo concerto. Non è così! Per arrivare a un livello ottimale servono 5-6 concerti di rodaggio. Quindi si lamentava: una volta ci ha fatto provare “Il testamento di Tito”, che sono 7 minuti di canzone, per tre giorni di fila».

Umanamente, invece, quale lato del suo carattere era predominante?

«Aveva questi slanci di umanità pura che ti lasciavano senza parole. Quando tutto gli andava bene erano tutti sorrisi, ma lui aveva questo rapporto conflittuale con il palco e questo veniva fuori. Nonostante noi lo rassicurassimo, a parole e con la nostra presenza, era sempre un po’ agitato. Negli ultimi tempi, invece, ci aveva preso gusto. Prima si accontentava di vivere soltanto con i diritti, non aveva necessità di fare dei live. Le cose sono cambiate dopo il rapimento: ha dovuto mettersi in pista».

C’è una canzone tra quelle che avete inciso insieme che le piace particolarmente?

«”Megu Megun”, che purtroppo ho dovuto togliere dalla scaletta dello show perché, per farlo venire come dico io, ci vogliono almeno 10-11 elementi e noi siamo in 7. Oppure “Smisurata preghiera” e “Amico fragile”. Ma anche “Se ti tagliassero a pezzetti”, che è un inno alla libertà come ne sono stati scritti pochi».

L’aneddoto tra i più divertenti tra quelli raccontati nel corso delle serate?

«Di solito presento quelli nei quali sono coinvolto io, ma questo me l’ha raccontato Franz Di Cioccio (il batterista della PFM, ndr): viene proprio fuori la personalità di Fabrizio, la sua diffidenza bonaria. Riguarda quando si sono incontrati per il famoso live “Arrangiamenti PFM” e lui non era persuaso, perché loro suonavano rock. Dopo un po’ si è convinto e ha detto: “Dai, proviamo. Però, se facciamo un tour, io non voglio seguire voi, voi dovete seguire me. In spia voglio soltanto la mia chitarra e la mia voce. Non voglio sentire gli altri strumenti”. Il tour è stato fatto così. È stato registrato tutto e quando sono arrivati in studio i tecnici, con lui presente, hanno iniziato ad alzare i livelli dei vari strumenti. Fabrizio quindi fa: “Ma la gente sentiva questo?”. I membri della PFM replicano: “Fabrizio, sì, certo”. E lui: “Belin che bello!”».

Quale eredità, non solo musicale ma anche culturale, ha lasciato De Andrè?

«Non vorrei essere pessimista ma visti i tempi e come stanno andando le cose, penso che non sia stato ricevuto nulla. Lui ha creato tanto ma è un peccato che la sua opera corra il rischio di essere persa nell’oblio. Ha sempre cantato l’amore a 360 gradi, anche quando ha inciso “Storia di un impiegato” che può sembrare un disco politico. Cosa ha lasciato? Questa grande indulgenza verso l’uomo».

Apertura porte alle 17. Cena su riservazione (insalata, risotto e luganighetta, torta, bibite non incluse) dalle 18. Prevendita su Biglietteria.ch.

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