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LUGANOMax Pezzali: «Ho ancora l'entusiasmo di quando avevo 25 anni. Il meglio deve ancora venire»

18.12.17 - 06:01
Il cantante si è raccontato in una lunga intervista, dalla batosta di Sanremo alla sua passione per le Harley, fino alla nascita del suo nuovo tour
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Max Pezzali: «Ho ancora l'entusiasmo di quando avevo 25 anni. Il meglio deve ancora venire»
Il cantante si è raccontato in una lunga intervista, dalla batosta di Sanremo alla sua passione per le Harley, fino alla nascita del suo nuovo tour

LUGANO - «Ero molto teso e quasi arrabbiato». È con queste parole che si apre l’intervista a Max Pezzali, che abbiamo incontrato in occasione di un incontro col pubblico alla RSI. Ma le sue parole non si riferiscono alla musica, bensì… all’Inter, e alla partita di Coppa Italia contro il Pordenone. «Però è bello che questi ragazzi (dei Pordenone) abbiano vissuto un sogno. Così c’è una bella storia da raccontare». Ma non solo Coppa Italia, si parla anche di Campionato: «Dipingi una squadra come da scudetto, ma alla fine l’obiettivo è arrivare in Champions. L’inter non è attrezzato per vincere contro squadre come la Juventus e il Napoli». E dopo il calcio si passa alla musica.

50 anni e 25 di carriera. Ma com’era Max Pezzali a 25 anni?

«Rivedo molto del me stesso di oggi. 25 anni di carriera ti cambiano un po’ le prospettive e le percezioni. A 50 anni non puoi avere l’ottimismo indiscriminato e indipendente da tutti e da tutto. Crescendo impari che alcuni aspetti sono dovuti al caso. Ma sicuramente ho conservato un bel po’ di entusiasmo che avevo 25 anni fa. Mi diverto ancora a fare questo lavoro, e a pensare che il meglio debba ancora arrivare. Non sono ancora nella fase del vecchio conservatore che pensa che il meglio sia già passato».

Qual è il filo conduttore del tuo nuovo album “Le canzoni alla radio”, che contiene sia inediti che grandi successi del passato?

«È il pop radiofonico, uguale allora e oggi. Io ascoltavo tutt’altro, ma la radio mi ha fatto avvicinare al pop radiofonico. Da qui anche il titolo dell’album».

A proposito dell’album, che rapporto hai con la radio?

«Per la mia generazione è tutto, era il mezzo di comunicazione della musica. Era l’ambizione. Era un mezzo coraggioso, dove si potevano proporre cose nuove, prima che arrivassero i grandi network. E questo contribuiva a costruire il gusto delle persone. Era una proposta musicale».

Che musica ascoltavi da giovane?

«Come tutti i nerd da liceo, ascoltavo solo generi alternativi perché i generi mainstream erano associati al tipo di persone che detestavo. Ascoltavo i GBH, i Dead Kennedys, tutta l’ondata punk hardcore dell’81-82. Poi ho cominciato ad ascoltare anche un po’ di metal. Ma successivamente è diventato tutto mainstream, e proprio per quello ho cominciato ad evitarlo. Quando ho visto i Saxon a Sanremo mi sono detto che avevo sbagliato tutto, con grandi crisi esistenziali al seguito. Ma poi ho capito che non era quello lì il parametro. Dovevo farmi un gusto in base alle mie scelte. E allora ho accettato l’idea che anche il pop potesse essere eticamente praticabile. Quando accetti il passaggio Joy Division - New Order hai sdoganato il pop».

Come è nata la collaborazione con Nile Rodgers per il nuovo album?

«Quando scrivo le canzoni utilizzo essenzialmente le tastiere. Ma volevo fare un pezzo smaccatamente funk, e ho usato dei suoni campionati di chitarra. E c’era “chitarra alla Nile Rodgers”. Ho fatto sentire il pezzo al mio produttore Claudio Cecchetto che mi ha detto: “Qui ci starebbe bene Nile Rodgers”. E grazie al cavolo, gli ho risposto. Poco dopo mi richiama dicendomi che è riuscito ad avere il suo indirizzo email, e di scrivergli. Ho passato la mezza giornata più difficile della mia vita, avevo paura di espormi al ridicolo. Gli ho persino scritto che poteva anche non rispondermi. Morale della favola: incredibilmente la collaborazione si è fatta.E ancora oggi mi ascolto solo le sue tracce, senza il testo. È incredibile».

Parliamo di Festival di Sanremo…

«Non sono mai riuscito a farlo all’altezza, e come avrei voluto. Mi sarebbe piaciuto farne uno bene nella vita. Ci sono artisti che sanno giocare bene la Champions League, io invece sono uno da Campionato, ho bisogno di tante partite. Mi sono messo il cuore in pace: probabilmente non è il tipo di competizione che va bene per me».

Per iniziare, meglio il talent o la gavetta?

«Oggi è difficile riuscire a fare la gavetta. Si sono perse una serie di strutture, di possibilità per arrivare a farsi ascoltare da chi è poi in grado di farti fare un disco. Non ci sono più i locali dove si suona, non c’è più il tempo, o nessuno ha più tempo per aspettare. Si è ridotto il mercato, il gusto delle persone è molto volubile e quindi nessuno fa più crescere gli artisti, nessuno dà loro più consigli. A nessuno interessa più, perché non c’è né tempo né denaro. Il talent è la possibilità di vedere un progetto fatto e finito. Ci pensa la televisione, che ha denaro e risorse, e ti consegna un prodotto già pronto. È il risultato della crisi del settore industriale, e non è colpa di nessuno. Semplicemente va così. L’unica alternativa ai talent è il web. Lì i ragazzi possono avere maggiore controllo, e nel momento del successo si possono già dettare un po’ di regole. Se ti vogliono devono prenderti per come sei».

Parlando di accenti nelle tue canzoni, ti si può definire un innovatore…

«Sono un cercatore di spazi dove non ce ne sono. È una cosa che avevo sentito fare ai rapper americani, e per l’inglese è più facile. Semplicemente mi sono detto: è sbagliato ma chi se ne frega».

Parliamo del tuo nuovo tour, in compagnia di Nek e Francesco Renga. È un nuovo modo di fare musica?

«Ognuno di noi ha il proprio percorso, e una carriera strutturata. Abbiamo le nostre abitudini di lavoro. Quando ti trovi nella stessa sala prove, nella stessa band devi trovare un terreno comune, perché nessuno è abituato a cantare in tre. Anche in una band non ci sono quasi mai tre cantanti. Si riesce a collaborare solo se c’è una profonda fiducia. Abbiamo trovato un nostro modo, e non era scontato».

Come è nata questa collaborazione?

«Abbiamo cominciato con il singolo “Duri da battere”. Era una canzone che avevo nel folder delle canzoni incompiute o che non ti convincono, perché melodicamente non stava tanto in piedi, e in parte era dovuto al fatto che bisognava cambiare tonalità. E ho pensato che ci volevano dei cantanti con una grande estensione. Abbiamo provato ed è andata bene. Non solo loro hanno risolto il problema dal punto di vista melodico delle voci, ma è nata un’atmosfera di cazzeggio, e ci siamo resi conto che anche tre voci così diverse timbricamente insieme possono starci. Questa nostra disomogeneità rendeva il tutto ancora più interessante. E perché allora non portare questa energia sul palco? Alla fine è un best of di tutti e tre, e mi viene voglia di mettermi in discussione imparando le canzoni di un altro. Professionalmente dopo tutto questo tempo è uno stimolo, si esce dal solito percorso».

“Duri da battere”, “I cowboy non muoiono mai”, “La dura legge del gol”, sembra che ci sia una voglia di rivalsa…

«È più un vendere cara la pelle. Una delle poche certezze che ti vengono quando superi una certa età e la fase eroica della vita, ti rendi conto che non tutto è così semplice come pensavi. Non hai il controllo di tutto, e devi cominciare ad accettare il fatto che elementi a volta casuali possono influire sulla tua vita e infliggerti delle dure batoste. Anche se non hai fatto niente per meritartele. Semplicemente accade. E ci sono due possibili reazioni: non salire più a cavallo, o risalire a cavallo finché non cadrai la prossima volta, e così via. Il fatto di stare a cavallo non è finalizzato a vincere la corsa ad ostacoli, ma è giustificato dal fatto solo di stare a cavallo. Non è detto che ti vada bene, ma hai l’obbligo di risalire in sella, perché non puoi rimanere a terra, in attesa degli eventi. L’obiettivo è stare a cavallo».

A proposito di batoste, qual è stato il momento più difficile della tua carriera?

«Probabilmente Sanremo 2011, quando non sono stato ammesso alla finale del sabato. Mi sono detto che forse era il caso di mollare. Ero demoralizzato, pensavo che non avesse più tanto senso fare questo mestiere. In realtà è la sindrome della Champions League. Quando continui a partecipare ma non superi mai gli ottavi, cominci a pensare che quella competizione non sia fatta per te».

“Come mai”, “Gli anni” e “Lo strano percorso”. Che modello di moto sono?

«“Come mai” è un cruiser da sera, per portare la fidanzata. Magari una Harley Heritage. Per “Gli anni” direi proprio una 883, la giovinezza. Per “Uno strano percorso” ci metterei una BMW GS (ride)».

Che moto hai ora?

«Una softail slim. E a proposito di Svizzera, mi è capitato di fare il tunnel del Gottardo in moto. Arrivi al tunnel e ci sono 3 gradi, vai dentro e ce ne sono cinquanta, tutto appannato,... e poi di nuovo tre gradi. Proverò a fare il passo prima o poi».

Quale messaggio è utile dare ai giovani attraverso le canzoni?

«Nonostante siano cambiati i tempi, ogni generazione pensa di essere o la migliore di sempre o la più perseguitata. In realtà sogni, frustrazioni, aspettative,... sono costanti di ogni generazione di giovani. La tua strada la devi trovare da solo, i “grandi” non ti aiuteranno. Tutto è diverso ma nulla è cambiato».  

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