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BELLINZONAAmanda Sandrelli è la madre di Türkyilmaz: «Una storia esemplare»

11.01.17 - 12:00
L'attrice italiana spiega perché ha accettato di ricoprire a teatro il ruolo della madre di Kubi
Amanda Sandrelli è la madre di Türkyilmaz: «Una storia esemplare»
L'attrice italiana spiega perché ha accettato di ricoprire a teatro il ruolo della madre di Kubi

BELLINZONA - Amanda Sandrelli, a Bellinzona per la presentazione di "Kubi", versione teatrale del libro di Flavio Stroppini dedicato a Kubilay Türkyilmaz, ci spiega perché ha scelto di portare sul palcoscenico il personaggio della madre del bomber bellinzonese, la signora Necla.

Come mai si è prestata a partecipare a questa iniziativa teatrale?
«Ho conosciuto Flavio in radio, a Lugano. Ho recitato per lui proprio a Lugano, e mi è piaciuto molto come scriveva. Mi sono trovata molto bene e siamo rimasti a: "Ma se un giorno avessi una cosa teatrale, posso chiamarti?”, e così è stato. Io non sono una tifosa di calcio, ma mi è sembrata subito una storia esemplare. Nello sport a volte ci sono storie che prescindono dallo stesso e diventano metafora di tanto altro».

Si parlava anche di riscatto…
«Beh, si. Quando Kubilay è riuscito a giocare in Nazionale, dato che è nato qui, era ticinese a tutti gli effetti. Però si chiamava Kubilay Türkyilmaz, e non ce n’erano tanti altri come lui, come invece accade ora. Quindi è ovvio che non sia stato facile. Sua madre, Necla, che io interpreto, è arrivata a 17 anni incinta da Istanbul a Bellinzona. Il papà è mancato prestissimo, e questa donna si è cresciuta tre figli da sola, quasi non parlando la lingua. Tre figli nati qui, sì, ma partendo da una situazione molto dura».

Kubi rappresenta una generazione, quella dell'emigrazione degli anni '60, completamente diversa da quella di oggi...
«Purtroppo oggi ci si ritrova ad affrontare una paura che sembrava, fino all'attentato delle due Torri e poi fino a Parigi, sembrava che davvero il mondo fosse un unico universo dove tutti potevamo muoverci con la speranza di un altro mondo possibile. In questa situazione la paura c'è ed è inutile nascondersi dietro a un dito. Io non trovo giusto quando si dice: non bisogna avere paura. Non si può chiedersi di non avere paura. La paura è un sentimento, è una reazione. La paura va affrontata e bisogna riflettere su che cosa realmente ci spaventa e su quanto davvero un muro può proteggerci o, invece, metterci ancora più in pericolo».

Come riesce il mondo della cultura a spiegare il fenomeno migratorio contemporaneo?
«Con il teatro. Perché è completamente diverso dalle altre forme di narrazione. Il teatro è vivo. E nel teatro accade qualcosa, che non è fatta soltanto di parole, ma anche di musica, di luci, di costumi e di vita. Di persone che vivono, che trasmettono energia, energia vera. Credo che questo sia per me, (ed è per questo che ho scelto il palcoscenico perché nulla mi dà più soddisfazione di stare sul palco), e per il pubblico sia un'esperienza fisica, e quindi molto più diretta. Per questo credo che leggere un saggio sull'integrazione o sulla storia di Kubi sia sicuramente una cosa bellissima. Vederla a teatro significa viverla. E il teatro ha il dovere di divertire, ma di affrontare temi utili. E si può fare attraverso una commedia, divertendosi. Anzi, lo si fa meglio. Perché si riesce a un pubblico anche non intellettuale, che ha voglia di divertirsi di storie in cui si parla di calcio e di donne. Il teatro deve essere comprensibile da tutti. Altrimenti vi è qualcosa che non va».

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