Bowie ha scioccato tutti all’alba di ieri. Ancora una volta. Purtroppo, l’ultima
LONDRA/NEW YORK - Era malato di cancro da diciotto mesi, ma nessuno, al di fuori dei familiari, ne sapeva nulla. Nessuno ha intuito che fosse la fine, nessuno è stato in grado di capirlo, di percepirlo, nemmeno i critici più attenti, eppure il commiato di David Bowie si cela nei versi, nelle strofe, di “Lazarus”, il secondo singolo – in rete dal 17 dicembre – che ha anticipato l’uscita dell’ultimo album, il ventisettesimo, “Blackstar”, pubblicato venerdì scorso, l’8 gennaio, giorno in cui David Robert Jones (questo il suo vero nome) ha compiuto sessantanove anni. «Look up here, I’m in heaven. I’ve got scars that can’t be seen», recitano i primi due versi della canzone («Guardatemi, sono in paradiso. Ho delle cicatrici che non possono essere viste»). Versi, strofe, che Bowie, mettendosi davanti alla macchina da presa per l’ultima volta, ha anche voluto trasformare in fotogrammi, raccogliendoli in un videoclip – sul web da giovedì scorso – da cui traboccano, inequivocabili, sofferenza, timore, odore di morte.
Bowie entrò per la prima volta in uno studio di registrazione esattamente cinquantadue anni fa, nel 1964, momento in cui pubblicò – come Davie Jones and the King Bees (la sua seconda band), il primo singolo, “Liza Jane”/“Louie, Louie Go Home” (Vocalion Pop). Nei cinque decenni successivi passò – indenne, come pochissimi altri – attraverso mode, stili, cambiando costantemente pelle per reinventarsi, per reinventare la musica e (ri)scrivere il futuro. A documentarlo, d’altra parte, è la sua opera omnia.