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CANTONEHoustones, «da consumarsi preferibilmente entro il 1999»

25.07.16 - 06:00
Saul Savarino narra la genesi del primo album, omonimo, degli Houstones, pubblicato lo scorso mese di febbraio - su nastro e in formato digitale - tramite Old Bicycle Records
Houstones, «da consumarsi preferibilmente entro il 1999»
Saul Savarino narra la genesi del primo album, omonimo, degli Houstones, pubblicato lo scorso mese di febbraio - su nastro e in formato digitale - tramite Old Bicycle Records

LOCARNO - Otto tracce ammalianti, messe a punto in un limbo da cui trabocca ogni suono, ogni sonorità, che i componenti del combo, nel tempo, si sono cuciti addosso, quanto una seconda pelle: grunge, hardcore, psichedelia, alt-folk, garage, corrono, e si rincorrono, lungo il nastro, incastonandosi come i pezzetti di un puzzle, come i pezzetti di una vita, uno dopo l’altro...

Gli Houstones sono un gruppo italo-svizzero, venuto alla luce tra Locarno e Milano nel 2012, per mano di Saul Savarino (voce, chitarra), suo fratello Nadir (basso) e Massimo Valerio (batteria). Provengono dalla periferia milanese e dalla scena hardcore anni Novanta (PHP, For I Am Blind), ma anche da aree più indie (Macnamar, Bloombergs). Inizialmente, decidono di chiamarsi Houston, come la città texana, ma successivamente scelgono di personalizzare il nome con l'intento di citare le influenze stoner rock, cambiandolo, appunto, in Houstones. Nel corso del mese di luglio 2013 registrano due singoli, “Fantasies Inc.” e “Milano (Or The Great Escape From The Country)”, entrambi per la Soppressa Records (autoproduzione). Per far fronte alle ristrettezze economiche decidono di pubblicare solo coppie di singoli e l’anno seguente realizzano “2nd Player Never Plays” e “We Aren’t Having Any Fun Yet”: anch’essi, come i precedenti, ottengono ottime recensioni. Le label, tuttavia, li rifiutano... Ma con la pubblicazione del quinto brano, “Coming To Save The World As Bill Murray Does”, l’etichetta di base nella Svizzera italiana Old Bicycle Records propone al combo di registrare un full lenght. Nel frattempo, la formazione cambia: il trio diviene un duo e, tuttora con Saul Savarino in prima linea, alla batteria prende posto Joel Pfister. Locarno, intanto, si trasforma definitivamente nella loro base operativa.

Saul, perché Houstones?

«Inizialmente, ci chiamavamo Houston. Soprattutto, mi piaceva l’idea di avere un nome che comunicasse un’immagine, o un immaginario, capace di rifarsi alla cultura televisiva e ai film americani con cui siamo cresciuti. L’idea del principale porto per i viaggi spaziali mi affascinava molto ma, contemporaneamente, guarda tanto in alto, quanto poco attorno: Houston è una città soffocata dal traffico, dal disagio sociale. È il classico paradosso americano con gang di latinos obesi sullo sfondo di una downtown, una città da telefilm anni Ottanta. «Una formula impazzita di città futura», direbbe Bennato. Poi, discutendo con gli altri, visto che ci stavamo avvicinando allo stoner rock, abbiamo deciso di replicare il cliché di milioni di band che inseriscono la parola “stones” nel nome: Rolling Stones, Stone Roses, Stone Temple Pilots, Queens Of The Stone Age, Stone Sour...».

Come è avvenuto il processo compositivo del disco?

«Normalmente scrivo i pezzi, li arrangiamo insieme, riscrivendoli, poi, completamente, durante le registrazioni. In una produzione tradizionale queste tre fasi fanno parte della routine giornaliera di una band in studio, ma visto che le nostre sessioni sono completamente autofinanziate i processi si devono separare, perché hai soldi limitati e, di conseguenza, un tempo limitato in sala di incisione».

Raccontami i testi, brano per brano…

«Tutto il disco parla di donne. Come tutti i dischi, del resto. In termini generali, il filo conduttore è un grosso lutto avvenuto nella mia famiglia, che ha generato tristezza, depressione, rabbia, orgoglio, voglia di rivalsa. L’album narra di cose molto personali, ma ovviamente i testi trattano sensazioni, momenti, immagini estemporanee che ispirano certe sonorità».

«“Smile”: il suo fulcro è «I spend my time to make you smile again» e «This shit is temporary, each one days are not the same». Direi che è chiaro dove voglio arrivare».

«“7 Seconds To 8” cita, in buona parte, le parole di David Briggs, il produttore di Neil Young, che nella sua autobiografia dice: «La vita è una panino alla merda. Mangialo o muori». Non canto espressamente queste cose, ma mi piace riflettere sul fatto che ci vogliono sempre 7 secondi per arrivare all’ottavo, e il nono, quello che aspetti, non arriva mai».

«“Lickin Hell’s Hole (I Love Myself And I Hurt Everyone)” parla di come le relazioni, spesso, ti mandano fuori di testa, portandoti a fare cose assurde e del male a coloro che ti stanno attorno».

«“Popular Star (A Pop Star Is A)” è un testo complesso, il primo che abbiamo chiuso con l’attuale formazione. Quanto hai visto e vissuto, spesso, ti porta a pensare di avere un bagaglio di esperienze con cui affrontare il futuro. Ma in realtà non è così… «Di doman non v'è certezza». Il verso che mi piace di più è «Keep drawing my portrait outside the frame».

«“Monsters” è una storia vera: mi sveglio una mattina e ricevo la pugnalata più grossa della mia vita. Così, per colazione, e allora «We are all monsters, like everyone»».

«“Room” narra della stanza da cui vorrei lasciare fuori tutto».

«“Apode” parla dell’elevazione - in senso religioso, trascendentale - che i sentimenti per una persona ti fanno avere. «Settled silent grace», senza piedi, ascendi, coi piedi resti sulla terra. Il concetto è un po’ questo».

«“Coming To Save The World As Bill Murray Does” è un pezzo che ho scritto per mio figlio Zeno. Parla di lui, della mia presenza, che per lui e per Sol (mia figlia piccola) sarà sempre costante. Parla anche delle lezioni o bastonate che la vita ti dà, e per le quali non sei mai preparato: «Love as much as you can and show them what it means. People always accept, people always forget». In questo verso c’è la chiave del pezzo: «ama più che puoi e mostra a tutti che significa, perché le persone accettano sempre e sempre dimenticano». Esattamente ciò che fa Bill Murray per il pianeta».

Le influenze musicali confluite nell’album sono molteplici… Vuoi elencarle?

«Parlare di influenze musicali del disco che hai scritto è difficile. Per me ci sono dentro cose che altri non sentono. Sicuramente è un disco anni Novanta. Difatti esce in musicassetta, che riporta stampata la frase «Best before 1999». Ovviamente è un twinkle, ma dà l’idea che, purtroppo, questa produzione non cambierà la storia del rock».

Sonorità così lontane, ma così vicine, raccolte in un unico album… Quali le maggiori difficoltà nell’intrecciarle?

«Non è un disco nato a tavolino. L’equilibrio delle tracce, se c’è, è spontaneo».

Raccontami le registrazioni…

«Sono state effettuate in due spazi diversi: il primo, per la batteria, è il Capannos Studio (Lecco) di Marco Bonanomi, già fonico dei Ministri. Il resto è stato inciso al Soppressa Studio di Locarno, dove, fortunatamente, la questione tempo diventa molto relativa. Inoltre,  all’interno del disco, come intro e come outro, ci sono registrazioni ambientali... All’inizio si sente chiaramente il suono di un telefono e una voce delle linee telefoniche di Los Angeles che dice «il numero non è raggiungibile» (un mio tentativo di chiamata all’attore Alessio Vitale). Alla fine, invece, c’è una registrazione rubata all’orchestra del Rigoletto alla Scala di Milano (sono andato lì apposta per rubarla). Poi, consiglio di alzare il volume al massimo tra un brano e l’altro, per sentire ciò che ho nascosto… Adoro queste cazzate...».

Perché la scelta di pubblicare l’album su nastro?

«È un disco anni Novanta, e questo già potrebbe essere un motivo. Ma in realtà è una coincidenza sorprendentemente coerente con l’album. Vasco Viviani, con la Old Bicycle Records, è uno dei pochi (forse l’unico in Svizzera) a pubblicare su nastro. Certamente un vezzo, ma in un’epoca di digitalizzazione totale, caratterizzare il prodotto è utile per avere un’esperienza estetica più ampia, più completa e fisica. Un mp3 è molto comodo, ma non ce l’avrai mai per casa».

State pensando anche all’edizione in vinile?

«Sarebbe bellissimo, ma costa troppo. Però a settembre, se tutto va bene, per la Dreamin’ Gorillaz Records di Savona uscirà un’edizione limitata del disco in cd».

Quando un live nella Svizzera italiana?

«Ne stiamo pianificando diversi: al Mono di Locarno, a Bellinzona e anche nel Sottoceneri...».

 

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