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CANTONEIn viaggio con Barre nell'immenso universo sonoro dei Jethro Tull

20.11.17 - 06:01
In previsione della performance in programma il 9 dicembre (ore 21) tra le mura del Teatro Plaza di Mendrisio, Martin Barre si racconta in una lunga intervista telefonica
In viaggio con Barre nell'immenso universo sonoro dei Jethro Tull
In previsione della performance in programma il 9 dicembre (ore 21) tra le mura del Teatro Plaza di Mendrisio, Martin Barre si racconta in una lunga intervista telefonica

MENDRISIO - Barre arrivò nelle fila dei Jethro Tull sul finire dei Sixties, non appena Mick Abrahams (chitarra) - poco dopo la realizzazione del primo disco, “This Was” (Island, 25 ottobre 1968) - lasciò la band. Un album blues oriented, direzione verso la quale Abrahams avrebbe voluto proseguire. Ma Ian Anderson (voce, flauto, piano), Glenn Cornick (basso) e Clive Bunker (batteria) guardavano oltre, verso metamorfosi sonore. Martin Barre (chitarra, flauto) venne reclutato in quegli stessi istanti, giusto prima di entrare in studio di registrazione per le session di “Stand Up” (Island, 25 luglio 1969), il secondo disco del gruppo. E, nonostante gli svariati mutamenti della formazione avvenuti nel corso dei decenni, vi rimase fino al 2012, anno in cui il sodalizio artistico con Ian Anderson giunse al termine…

Martin, cosa ascolteremo il 9 dicembre a Mendrisio?

«Lo show ruoterà attorno ai classici dei Jethro Tull, così come ad alcuni estratti del mio ultimo album, “Back To Steel” (Garage Records, 2015). Porterò con me tre musicisti straordinari: Dan Crisp (voce), Alan Thomson (basso) e Aaron Graham (batteria). Coloro che assisteranno al concerto torneranno a casa felici… (ride)».

Raccontami del tuo primo incontro con Ian Anderson…

«(ride) Potrei scrivere un libro e, con ogni probabilità, un giorno incomincerò… Comunque… Sai, all’epoca, ero completamente immerso nel blues e per me i Jethro Tull erano il modello da seguire. Li vedevo all’opera nei club, e volevo essere come loro… Poi, Mick decise di lasciare la band e arrivò il mio momento. Ero felice, ma ero anche molto teso... Non fu semplice: il processo di ricostituzione della line-up durò diversi mesi…».

Cosa vuoi dirmi delle session di “Stand Up”?

«In studio aleggiava costantemente una sensazione di forte apprensione: come sai, ci stavamo staccando dal blues e non sapevamo come la critica e il pubblico avrebbero accolto quanto sarebbe finito nel disco… Qualcuno, inevitabilmente, non accettò la metamorfosi, ma i numerosi consensi che ci piombarono addosso ci portarono a credere ancora di più nella nostra musica, che di lì a poco avrebbe forgiato gli album successivi…».

Cosa ascoltavi all’epoca?

«Dal blues al rock’n’roll, dal rhythm and blues al jazz… Come puoi immaginare, le mode già cambiavano molto rapidamente e se volevi continuare a fare questo lavoro dovevi stare al passo coi tempi... E fu molto utile, perché imparai tanto… Fermarsi, porsi dei limiti, non serve a nulla…».

Oggi quali sono i tuoi ascolti?

«Ascolto tuttora gente come Ben E. King, Otis Redding, Wilson Pickett, così come Albert King, Freddie King e gli Impressions. Ma anche musica classica e realtà più vicine al nostro tempo…».

Vuoi fare qualche nome?

«Amo molto, ad esempio, ciò che ha fatto Chris Cornell… Mi è dispiaciuto molto quando ho saputo della sua morte... Poi, i Porcupine Tree e Steven Wilson…».

Raccontami di te, prima dei Jethro Tull… Che aria si respirava, all’epoca, in Inghilterra?

«Vivevo già a Londra e tutto quanto, come puoi immaginare, era molto eccitante… Ascoltavi e scoprivi la musica con gli amici e, soprattutto, ti gustavi un album dall’inizio alla fine… Oggi, purtroppo, non capita più… Pare non ci sia più il tempo...».

In quel periodo hai militato in diversi gruppi: so che con i Motivation, nel 1967, hai suonato al Piper di Roma…

«Eravamo un gruppo soul… In Inghilterra avevamo fatto da backing band a gente come Ben E. King, i Coasters, i Drifters e Lee Dorsey… Poi, nel ‘67 il Piper ci ingaggiò per sei settimane… Vivevamo in un appartamento vicino a Piazza di Spagna… Ricordo che ogni mattina andavo in giro per la città ad ammirare le meraviglie che custodisce… Dopo, ci spostammo a Livorno… Restammo in Italia circa un anno… Un anno fantastico…».

Torniamo ai Jethro Tull: come ricordi le session di “Aqualung” (Island, 19 marzo 1971)?

«Non furono dei bei momenti... Eravamo sotto pressione: tante cose, in studio, non andarono nel verso giusto e questo fu un fattore che influì, inevitabilmente, sulle performance della band…».

Il disco, però, ebbe un grande successo...

«Sì, ma fu una sorpresa anche per noi…».

Il tuo assolo nella title-track è una pietra miliare della storia del rock: raccontami come venne alla luce...

«Avevo qualche idea, questo sì, ma prevalentemente si tratta di pura improvvisazione…».

“Thick as a Brick” (Crhysalis, 3 marzo 1972), secondo alcuni critici, è il primo disco prog dei Jethro Tull: condividi?

«No… Anche se è vero che ebbe una gestazione del tutto singolare, che ci portò  a non suddividere le tracce contenute al suo interno...».

Qual è il tuo album preferito della band?

«“Benefit” (Island, 24 aprile 1970)...».

Perché?

«In studio c’era freschezza, positività… Bei momenti, in questo caso… Davvero…».

Prima di concludere volevo sapere se stai lavorando a un nuovo disco...

«Sì, ma non posso rivelare tanti dettagli… (ride)».

Nemmeno quando sarà pubblicato?

«Questo sì… All’inizio del 2018…».

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