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LUGANO«I migranti? Sono una cosa bella. Danno il colore anche alla Svizzera»

19.05.16 - 06:00
Goran Bregovic suonerà sabato 21 maggio al Palazzo dei Congressi, e proporrà brani del suo vasto repertorio e forse qualche anticipazione del nuovo album, che uscirà ad ottobre
«I migranti? Sono una cosa bella. Danno il colore anche alla Svizzera»
Goran Bregovic suonerà sabato 21 maggio al Palazzo dei Congressi, e proporrà brani del suo vasto repertorio e forse qualche anticipazione del nuovo album, che uscirà ad ottobre

LUGANO - Musicista, compositore, anche attore (ha recitato ne "I giorni dell'abbandono" di Roberto Faenza): Goran Bregovic è un artista poliedrico, che nel corso della sua ormai lunga carriera ha saputo assorbire le influenze culturali della sua terra d'origine, la ex Jugoslavia, fondendole in uno stile ora peculiare e riconoscibilissimo. Cosa sarebbero i film di Kusturica senza la sua colonna sonora? Lo abbiamo intervistato in vista del concerto che terrà sabato a Lugano, e con lui abbiamo parlato della sua musica ma anche della cultura gitana e dell'attualità, politica e non solo.

Goran, lei si reca alle nostre latitudini con regolarità: questo mi fa presumere che si sia perlomeno un po’ affezionato alla Svizzera italiana, mi sbaglio?

«È facile essere affezionati alla Svizzera: è uno dei Paesi più belli del mondo. La gente è curiosa di scoprire cose diverse: io sono un compositore di una cultura musicale piccolissima, e per me è un miracolo incredibile che ci sia interesse intorno alla mia musica. Per questo è bello venire in Svizzera e suonare».

Cosa vuole anticipare a coloro che assisteranno al suo concerto in programma al Palazzo dei Congressi di Lugano il prossimo 21 maggio?

«Vengo con un programma gioioso: suonerò un po' dei brani che ho scritto per il cinema, altri della mia opera "Karmen" con lieto fine, alcuni di "Champagne for Gypsies" e forse qualcuno del mio prossimo disco, che uscirà in ottobre, e che si intitolerà "Tre lettere di Sarajevo"».

“Champagne For Gypsies” (2012) è il suo ultimo album. Nel corso di una chiacchierata, nel 2014, mi ha raccontato la genesi dei brani: brani, questi, nati conseguentemente alle pressioni esercitate in quel periodo sul popolo gitano. L’obiettivo del suo disco era quello di  rammentare a Paesi come Italia, Francia, Ungheria e Serbia che da secoli i gitani fanno parte della loro, della nostra, cultura popolare... È cambiato qualcosa, secondo lei, in questi ultimi anni nei loro confronti?

«Nei 600 anni in cui i gitani sono in Europa, non è cambiato molto. A tutti piacciono le musiche gitane, ma con loro si comportano più o meno nello stesso modo: non bene. Lo sapevo che nessun disco può cambiare le cose, però per migliorare questo modo bisogna illuminare una lunga strada. Anche piccole luci, come "Champagne For Gypsies", forse aiutano».

Con la chiusura della rotta balcanica, come vede ora come ora la tragica situazione dei migranti?

«Non capisco da dove esce questo panico per i migranti. Le nostre culture sono le culture dei migranti: senza migrazioni questo mondo non muterà mai, e cosa sarebbe l'America che adesso è il Paese più forte del mondo? Anche l'America del Sud... Anche la Svizzera non sarebbe la stessa senza i migranti: vengo in Svizzera da 30 anni ed è bello vedere la gente che arriva da ovunque, e che dà il colore al Paese. I migranti arricchiscono il mondo con il loro essere in movimento, solo che per loro è difficile lasciare la casa e non avere dove tornare. Spero che tutti capiscano che i migranti sono una cosa bella».

Tornando all’arte, alla cultura gitana… So che lei, da sempre, si nutre di quella musica, o meglio, di quelle musiche…

«Quello che mi impressiona da sempre della musica gitana è la sua costante modernità, non perché vuole esserlo ma perché i gitani devono sopravvivere grazie alle loro musiche. Sono così diverse le musiche gitane: non c'è niente che lega quella di Django Reinhardt a quella dei Balcani, o quelle inglesi con il flamenco, o le russe con le altre. Io vengo da una piccola cultura che era sempre provinciale: l'unica cosa che sapevo da sempre, che avesse una certa vitalità e modernità, era la musica gitana. Non è un caso che tanti compositori della musica popolare e classica sono stati impressionati dai suoni gitani».

In questo periodo sta lavorando a un nuovo album? Eventualmente, cosa vuole e cosa può anticipare?

«Come dicevo, il mio nuovo disco si chiama "Tre lettere di Sarajevo". È partito da un'idea che avevo per una commissione dalla basilica di Saint-Denis, a Parigi, per la quale ho scritto un concerto per violino e orchestra sinfonica, che sarà eseguito il 14 giugno. L'idea è stata di utilizzare Sarajevo come metafora per questo mondo di oggi, dove è possibile che un giorno viviamo insieme come buoni vicini, e quello successivo può sgorgare il sangue. Sarajevo può essere un punto buono dove partire, tre lettere per questo mondo che è diventato pazzo. Cercando ancora una metafora che ci accomuna, ho pensato al violino che si suona in tre maniere principali: classico, come si suona nel mondo cristiano; klezmer, come lo suonano gli ebrei; orientale, tra i musulmani. Sono tre tecniche completamente diverse, con lo stesso strumento. Con queste due metafore, Sarajevo e violino, e partendo dal concerto ho cominciato a comporre le canzoni con gli artisti cristiani, ebrei e musulmani. Per adesso ho finito due canzoni. Come tutti i miei album sarà un disco per ballare e bere, però con un piccolo "messaggio nella bottiglia" che cerca di trovare qualcuno che lo apprezzi».

Internet, i social network, le piattaforme streaming, i digital store sono un bene o un male per la musica?

«È bello sapere che oggi la musica è libera e che tutti la possono ascoltare». 

Qual è l’ultimo disco che ha comprato? Quando? In quale formato?

«Non compro più i dischi, mi basta ascoltare su Internet. Tutto ciò di cui ho bisogno c'è su Internet».

C’è un musicista dell’ultima generazione che l’ha colpita in modo particolare?

«Ci sono tante cose belle oggi: dal reggaeton al sudamericano, alle musiche kitsch dei Balcani all'hip-hop francese».

Qual è la sua opinione sui talent show?

«Penso che i talent show diano opportunità ai giovani per farsi vedere e accorciare la strada (verso la notorietà, ndr). Per l'industria è più facile scoprire i talenti, e il pubblico si diverte. Sono una cosa utile, penso».

Quale consiglio si sente di fornire a un giovane musicista?

«I giovani di oggi, almeno quelli che vengono dopo i miei concerti a farmi ascoltare quello che hanno realizzato, piano piano ripartono dalla tradizione ma cercano di fare qualcosa di contemporaneo. È così da sempre: è stato il metodo di Stravinskij, di Gershwin, di Lennon/McCartney, di Bono... È bello vedere che c'è un grande sguardo sul proprio bagaglio di tradizioni, in tutto il mondo. Forse può essere un consiglio da dare ai giovani: guardate cosa c'è nella vostra casa, prima di guardare fuori».

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