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LUGANO«Mio marito è morto per non perdere il lavoro»

22.08.17 - 09:35
Aspettando la sentenza, la vedova dell'operaio deceduto a Sigirino racconta a tio.ch/20minuti una battaglia giudiziaria durata sette anni. E fa un appello
Tio.ch / 20 minuti
«Mio marito è morto per non perdere il lavoro»
Aspettando la sentenza, la vedova dell'operaio deceduto a Sigirino racconta a tio.ch/20minuti una battaglia giudiziaria durata sette anni. E fa un appello

ISCHIA - «Lo faccio per lui, per dargli giustizia». Filomena Mirabelli è una donna del Sud “vecchio stampo” e non è abituata a parlare ai giornali. Non lo ha fatto per anni, affrontando in silenzio una battaglia legale con pochi eguali nelle cronache ticinesi. «Sette anni» per la precisione. «Durissimi». Tanti ne sono passati da quella sera del 22 settembre 2010 in cui il marito Pietro, 54 anni, la salutò per l'ultima volta. Lo racconta come fosse ieri: «Mi disse che non mi avrebbe più lasciata sola. Voleva che venissi a vivere in Svizzera con lui».

Quella notte invece suo marito morì schiacciato da una parete di roccia, nel cantiere Apltransit di Sigirino. La sentenza (l'accusa è di omicidio colposo) è attesa a giorni. 

«È stato un percorso durissimo. La giustizia ticinese, nella prima parte delle indagini, non si è dimostrata all'altezza. La Procura si è rifiutata per tre volte di aprire un'inchiesta. Ma non è stata l'unica delusione».

A cosa si riferisce?

«Mio marito era stufo delle condizioni di lavoro in Italia, ed era stufo della vita da nomadi del minatore. Voleva passare più tempo con me, mi aveva chiesto di lasciare la Calabria, per trasferirmi più vicino al suo luogo di lavoro. Credeva che il Ticino fosse un posto migliore. Anche per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro: era la sua battaglia».

In un documentario del 2008, "Fratelli di Tav", suo marito aveva denunciato la mancanza di sicurezza nei cantieri dell'Alta Velocità a Firenze. 

«Lavorava lì come responsabile della sicurezza, un mestiere che svolgeva in modo rigoroso. Era molto attivo, e scomodo. Ha pagato questa sua scelta con il precariato. In Italia gli si è creato il vuoto attorno in ambito professionale, ma aveva ricevuto molta solidarietà: una rete di amici e associazioni che mi hanno affiancato poi, finora, nella battaglia legale». 

E a Sigirino? Cosa ha trovato?

«Gli stessi problemi. È questa la grande delusione. Operai costretti a operazioni pericolose, in base a regole non scritte. Anche lui si è dovuto adeguare: ormai era lì. O rischiavi, o ti licenziavano. C'erano le bollette da pagare. E gli è costato la vita».

I responsabili del cantiere ora sono sotto accusa. Cosa si aspetta dalla sentenza?

«Le indagini hanno mostrato molte cose. La superficialità della polizia cantonale in questo frangente. L'omertà di molti ex colleghi di Pietro. Il ruolo dubbio del sindacato a cui Pietro era iscritto (l'Ocst, ndr.). Ci hanno lasciati soli, e così hanno scelto di stare dall'altra parte. La mia speranza e il mio appello è che la verità possa emergere, tutta. Chi sa, parli. Perché tragedie simili non si ripetano più».  

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