Mezzo secolo di scomode verità, raccolte dal blog di Bruno Ferrini, 78enne omosessuale. La sua testimonianza potrebbe diventare un libro
CASLANO – «E ora vi racconto i segreti del mondo gay nella Svizzera italiana». Potrebbe essere l’incipit del libro scritto da Bruno Ferrini, 78enne di Caslano. Mezzo secolo di scomode verità, raccolte da un osservatore privilegiato. Per ora, i suoi testi sono visibili solo sul suo blog. Ma lui annuncia: «Sto lavorando per lasciare un’eredità al Ticino». Ferrini negli anni ’90 era balzato agli onori delle cronache per avere aperto lo Spazio Gay di Massagno. Un punto di ritrovo e di confronto per gli omosessuali. Oggi guarda con amarezza a quel periodo. «Non c’è più nulla per i gay in Ticino – sospira –. Non siamo neanche stati capaci di realizzare un bar. Hanno vinto paura e ignoranza».
Ferrini, lei sta, piano piano, riassumendo 50 anni di storia dell’omosessualità in Ticino. Perché lo fa?
«Chi è omosessuale non deve avere timore di dirlo. Troppi gay vivono nell’ombra. Non è giusto. Spero, nel mio piccolo, di contribuire a cambiare le cose».
Le mancano i tempi di Spazio Gay?
«Sì. C’è stata un’involuzione. Negli anni ’90 si giocava parecchio sulla visibilità. Adesso ognuno sta nel proprio brodo. E magari soffre anche. Nel 2004, quando si votò per le unioni registrate in Svizzera, tanti gay ticinesi optarono per il “no”. Paradossale. “Non vogliamo mica farci registrare”, dicevano…».
Da dove arriva questa omertà?
«Secondo me, ci siamo fatti condizionare dalla mentalità italiana, piena di pregiudizi. Avremmo dovuto continuare a prendere esempio dalla Svizzera tedesca. Ho vissuto a lungo a Zurigo, dove ho studiato chimica. E ho avuto una madre svizzero tedesca. Al nord la mentalità è veramente diversa dalla nostra».
Quando ha scoperto di essere gay?
«Sin dall’adolescenza. Io lo dicevo apertamente. Mia madre mi ha sempre appoggiato. Mio padre, invece, forse non se ne è mai reso conto. Tanto che a un certo punto mi combinò pure il matrimonio. Io sono stato sposato per 25 anni, senza avere figli per fortuna».
E come ha vissuto questa esperienza?
«Mia moglie era davvero innamorata di me, penso. Io, però, non ho mai nascosto nulla. Mi facevo i fatti miei. A un certo punto mi sono trasferito a Ginevra e lei è rimasta in Ticino. Siamo andati avanti così per tanto tempo. Lei mi capiva».
Si è mai sentito in colpa?
«No. Perché sono sempre stato sincero. Non facevo il doppio gioco. Oggi ci sono tanti uomini sposati che, di nascosto, hanno avventure omosessuali. Ne ho conosciuti molti, anche in Ticino. E si torna al discorso iniziale. C’è la paura di fare vedere chi si è veramente».
Lei pensa che nella Svizzera italiana ci siano tanti gay “nascosti”?
«Ne sono sicuro. Molti hanno una tendenza omosessuale, ma non l’accettano. Altri, per potersi muovere senza destare sospetti, assumono atteggiamenti omofobi. Anche la bisessualità è diffusa».
Ai suoi tempi, si accostava il mondo gay all’Aids. C’è ancora questa percezione?
«No. Ed è stato un bel passo in avanti. L’ignoranza, però, è ancora tanta. Sfocia nella xenofobia. Ci sono famiglie che ancora non accettano di avere un figlio gay. E ci sono ragazzi che si tolgono la vita per questo. Alcune persone crescono in contesti in cui si sentono ripudiati. È terribile. E poi c’è ancora tanta leggerezza nel linguaggio. Espressioni come “frocio di merda” a me scivolano addosso. Ad altri no. Serve più sensibilizzazione, altrimenti si continua a creare esclusione sociale».
Cosa pensa del gay pride?
«Può essere una bella iniziativa. Una bella azione di visibilità. Occorre fare attenzione a non farla diventare una carnevalata. Alcuni frequentano i gay pride a scopo terapeutico. Per rinfrancarsi. Invece, dovrebbero essere solo momenti di festa».
Torniamo al bar gay. Come mai, a suo avviso, questo tema genera sempre polemiche?
«Perché la gente ha paura che si trasformi in un ghetto. In qualcosa di sporco e di losco. Forse è anche colpa di alcuni omosessuali sopra le righe, che non rappresentano comunque la normalità gay. Negli ultimi 20 anni i ticinesi sono diventati molto più paurosi. Forse a causa dell’immigrazione, della globalizzazione. Quello che non si conosce, causa ansia e apprensione. E così non si va da nessuna parte».