Quarant'anni fa accadde all'Italia: ecco com'è andata poi
LUGANO - Sarà il senno di poi a stabilire chi ha torto o ragione: se infine sarà un bene oppure porterà soltanto male. Ed è vero poi che ogni storia è un caso a sé: non è detto che al Canton Ticino vada come andò all'Italia, quando l'idea di prolungare l'orario di apertura dei negozi destava le medesime preoccupazioni e le proteste di cui oggi si è persa memoria. Certo che, all'indomani del sì al referendum, spiccano le prime analogie con quanto accadde tempo fa oltreconfine. Era il 1977 quando l'Italia obbligò i negozi ad aprire e chiudere rispettivamente “non oltre le 9” e “non oltre le 20”, in deroga al limite delle 44 ore settimanali, censurando di fatto orari più o meno standard. "Non posso prevedere quali saranno gli sviluppi in Ticino - osserva il segretario generale della Cgil di Como Alessandro Tarpini - ma tenderei a ricordare agli amici svizzeri come è andata in Italia, dove si è giunti oggi a una totale deregolamentazione".
Consumatori o cittadini? - Nel 1983 fu abolita la chiusura pomeridiana, aprendo la strada all'orario continuato, e nel 1987 venne introdotta l'apertura fino alle 21, quella domenicale e la festiva per alcune tipologie specifiche di negozi. Differenti da quelli che l'articolo 10 della legge votata domenica elenca come passibili di “restare aperti tra le 6 e le 22.30”. Là erano libri, dischi e video soprattutto; qui chioschi, locali che vendono cibo d'asporto, negozi annessi alle stazioni di servizio o esercizi associati a eventi culturali e sportivi. Fatto sta che a segnare la svolta, qui come là, è il punto di vista da cui guardare le attività commerciali. Non più quello di chi ne consente l'esistenza, cioè il lavoratore penalizzato – qualcuno si è lamentato per settimane – nel suo diritto alla vita familiare e sociale; ma quello del consumatore cui fa solo comodo una mezz'ora di tempo ulteriore, dalle 18.30 alle 19 sabato escluso, in cui fare acquisti. "Si tende a considerarsi sempre più consumatori che cittadini. È un problema di tipo culturale-sociologico al quale è complicato opporsi".
Nulla ha potuto neppure la Chiesa - Un cambiamento di mentalità che, partito in sordina, ha portato dritto l'Italia a fare i conti, oggi, col lavoro domenicale e anche notturno. Prima con un decreto legislativo che nel 1998 ha allungato l'orario d'apertura dalle 7 alle 22, con possibilità di deroga alla chiusura festiva concessa previo consulto con le associazioni dei consumatori. Nel 2012 il governo Monti ha infine dato il via alla liberalizzazione totale, fra le rimostranze vane della Chiesa che insisteva per consacrare a Dio e al riposo il giorno di festa e quelle dei sindacati di sinistra schierati in difesa del diritto a trascorrere la domenica in famiglia. "Sarebbe importante riflettere sulle conseguenze materiali che fare acquisti a ogni ora del giorno produce. In Italia, sono state disastrose anzitutto per i lavoratori, donne in particolare, e hanno creato difficoltà familiari gravissime. Alla lunga, questa situazione rischia di diventare un problema sociale".
Niente asilo per i figli: e i piccoli paesi muoiono - Una legge pericolosa, dunque, per il Ticino: "Mi pare che ci si stia avvitando dentro a un percorso che pone i consumi sopra ogni dimensione umana e sociale". Che cosa questo significhi, in Italia è da tempo realtà con cui misurarsi nel quotidiano. "Perché il commercio va in questa direzione, ma i servizi sociali rimangono organizzati come prima. I trasporti pubblici non si adeguano a un orario di lavoro incrementato, gli asili nido sono chiusi la sera e la domenica". Inoltre, "finiscono per essere sconvolti gli equilibri urbani: con un meccanismo commerciale che tende a privilegiare la grande distribuzione, i negozi al dettaglio rischiano di saltare in aria, i piccoli paesi e le aree più decentrate muoiono, con incognite di sopravvivenza per la popolazione anziana".
Altro che posti di lavoro: cresce pure la disoccupazione - Nessun beneficio neppure dal punto di vista occupazionale, giurano studi e statistiche. Magari sulle prime il numero dei lavoratori incrementa, ma "a processo consolidato, per ogni occupato nella grande distribuzione, dove l'intensità delle vendite è più elevata, se ne perdono altri due. Le conseguenze sono diverse. In Italia stiamo iniziando a confrontarci anche con il problema delle aree commerciali dismesse".
Ma ora l'Italia vuol tornare indietro - Sarà anche per questo che ora si prova a tornare indietro. Oggi un negozio oltreconfine può restare aperto quando e quanto vuole, senza limitazioni territoriali, stagionali o commerciali: ma da mesi ormai la politica discute se davvero non sia il caso di tornare sui propri passi e imporre la chiusura almeno in concomitanza con le dodici festività principali dell'anno. "Questa è stata la proposta iniziale. Nel frattempo si è già scesi a sei giorni". Una controriforma criticata aspramente tanto dalle grandi catene di distribuzione quanto dai consumatori, refrattari a ripristinare una situazione che quattro anni fa appena era normale e oggi appare inadeguata ad esigenze che cambiano.
Il vero pericolo? L'abitudine - Perché il vero danno è il progressivo adattamento a status quo un tempo inconcepibili: una dinamica che potrebbe presto riguardare il Ticino. Il primo passo, in fondo, è già stato compiuto, scritto su un pezzo di carta. I detrattori della legge hanno messo a lungo in guardia: al fabbisogno dei ticinesi bastano gli orari già in vigore. Con una crocetta sulla scheda, il popolo ha mostrato in fondo di non pensarla uguale.