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CANTONE"Ecco come un esercizio in classe ci ha catapultati nel mondo del lavoro"

05.03.15 - 06:08
Realizzate durante il corso di metodologia progettuale, le sedie di sedici studenti della Supsi saranno vendute alla Brico Sa. "Un’esperienza da ripetere"
Foto Tio/Davide Rotondo
"Ecco come un esercizio in classe ci ha catapultati nel mondo del lavoro"
Realizzate durante il corso di metodologia progettuale, le sedie di sedici studenti della Supsi saranno vendute alla Brico Sa. "Un’esperienza da ripetere"

MANNO -Era tempo che la didattica uscisse dalla scuola: si misurasse con il mondo del lavoro, le esigenze del mercato, il gusto del consumatore. Con i limiti e confini di un’economia reale. «Tutto questo in aula manca – ammette Giorgia Grizzi, oggi al terzo anno del bachelor in architettura d’interni alla Supsi - Sarà interessante vedere come reagisce il pubblico».

Dalla sfida con se stessi in classe a quella con gli altri sopra gli scaffali di un negozio. Un’occasione perché la teoria diventi pratica; per mettersi alla prova nel quotidiano e con il quotidiano, dove il giudice infine è la gente che, per qualche giorno ancora, potrà scegliere e votare la sedia preferita tra i sedici modelli realizzati per un’esercitazione scolastica, presto messi in vendita alla Brico Sa fai da te sotto forma di kit di montaggio. Prezzo da 50 a 99 franchi: una soddisfazione per i ragazzi, 3 maschi e 13 femmine, del corso di metodologia progettuale, dipartimento ambiente costruzioni e designer, che lo scorso anno sono stati valutati dal docente sotto il profilo del “metodo”, stavolta si assoggettano alle opinioni dei cittadini.

«Preoccupato? Felice, piuttosto», corregge Daniele Barloggio di Riazzino, 24 anni: la sua voce non è un’anomalia in un coro di aspiranti architetti pronti a riconoscere la «grossa opportunità» offerta da una scuola che di norma chiude le porte al mondo esterno, lasciando che sia lo studente ad andargli incontro e a essere fagocitato nel suo vortice da solo. Se ancora c’è fanciullezza, da qualche parte nel loro agire, non è nell’esito ma nei nomi con cui a volte l’identificano. Daniele, per esempio, si è rifatto a Gio Ponti per la sua «Pipius, dal nome del mio gatto che vi si sedeva sopra mentre lavoravo. È la numero 16, le più leggera che potessi realizzare, fatta con paraspigoli in rovere, listelli di abete triangolari e cunei fermaporte». In camera ne tiene un prototipo; ammette che «no, non ci ho più lavorato, non ho tempo: m mi piacerebbe. Per me è un’opportunità senza precedenti, sarà bello sentire i complimenti come le critiche della gente. Non mi aspetto nulla, ma questa esperienza mi ha arricchito. Entrerà nel mio curriculum: magari mi darà nuove opportunità».

Jean Prouvé ha ispirato Daniela Vezzoli, 23 anni di Bedano, orizzonti chiari fin dall’inizio. «Ho trovato presto la mia idea e l’ho sviluppata velocemente». Sulle prime, pensava di utilizzare solo legno: è arrivata invece ai tubi per l’isolamento e alla sua Rullo, numero 9. «Ho optato per una seduta comoda, impilabile. No, non vincerò: altre sedie meritano di più. Forse, avessi avuto un po’ più di tempo, avrei potuto meglio bilanciare comfort, estetica e funzionalità. Ma è stato bello così. Meraviglioso lavorare con i miei colleghi: vedono le cose da un altro punto di vista e riescono a cambiare un’ottica su cui magari ti sei fossilizzato. Veder realizzata un’idea al di là delle mura scolastiche, poi, è una sensazione pregevole. Ti senti utile, apprezzato».

Sacchi di iuta, reti da cantiere, zerbini accanto ai materiali più tradizionali: tutti “usuali”, anche se magari atipici per una sedia, accessibili a chiunque per prezzo e reperibilità. «Esperienze come questa sono da ripetere – è sicura Giorgia Grizzi, 23 anni di Gordevio, sedia numero 5 – Di solito ci limitiamo a un confronto interno, restiamo distanti da quelle che sono le esigenze reali del pubblico». I listelli laterali ricordano «il modo in cui cadono le tessere del Domino»: per questo poi è così che ha chiamato la sua sedia, che sul principio doveva esser tutta un’altra cosa. «Sono partita da un sistema a intreccio, poi ho
capito che questo tipo di seduta, in legno, avrebbe dato maggiore stabilità». Tante immagini, molteplici visioni successive l’hanno guidata verso il risultato, frutto «di molta ricerca. Soddisfatta? Si può sempre migliorare. Però, nel complesso, direi di sì. È la prima volta che esponiamo al pubblico un lavoro scolastico. Mi aspetto apprezzamenti e critiche dal punto di vista estetico».

Il lavoro in team è l’altro aspetto che ha riscosso l’entusiasmo dei ragazzi. Perché è vero che ciascuno si dedicava alla sua opera: ma è la regola, in un atelier non c’è suggerimento e opinione che possano essere taciuti. «Magari sei lì a diventar matto, arriva un’altra persona e in un istante ti dà l’idea che cercavi e non trovavi», riflette Daniele. Lo ripete spesso Luca Conti, già docente al Politecnico di Losanna, ora di metodologia progettuale alla Supsi, sostenitore della necessità di rendere meno speculativo l’insegnamento: «I miei studenti non hanno fatto una sedia ciascuno. Ne hanno fatte sedici»

 

 

 

 

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