08 ago 2007 - 08:31 Aggiornamento 13 ott 2014 - 14:02 0
David Lynch, o l’arte senza sofferenza
« L’importante non è il risultato ma il piacere che provi a raggiungerlo. Per molti il concetto di arte è indissolubilmente legato a quello di sofferenza, ma io sono convinto del contrario: più sei sereno, più sei in chiaro con te stesso e meglio riuscirai ad esprimerti attraverso la tua attività artistica ». Questi –tradottiinparolepovere–alcuni dei concetti espressi nel documentario Lynch, firmato con lo pseudonimo Black ANDWhite da un collaboratore di lungo corso del regista statunitense (Jason S.), presentato ieri dalla Settimana della Critica. L’ottima affluenza registrata al Kursaal (quasi tutto esaurito alle 11 del mattino)dimostra come tra i frequentatori del festival i lynchiani costituiscano una tribù numerosa e come i film che promettono di svelare i segreti del lavoro di un cineasta suscitino sempre grande interesse.
Filmato (per 700 ore ridotte a 82 minuti in montaggio) sull’arco di due anni, mentre è impegnato nella preparazione e nelle riprese del suo ultimo lungometraggio Inland Empire, David Lynch parla, riflette, ricorda ma soprattutto agisce: dipinge, fotografa, esplora, scolpisce, intaglia... L’immagine che emerge dal film è quella di un artista «totale», la cui opera è da leggere come un unicum e i cui film ne rappresentano solo il capitolo più noto al grande pubblico. Incombe sull’insieme l’ultratrentennale pratica della meditazione trascendentale che Lynch, pur parlandone molto poco, considera come la base della propria esistenza. In un film che non si appiattisce sullo stile del «maestro» ma trova una sua via originale sia a livello di immagini che di montaggio, i fans apprezzeranno soprattutto i momenti in cui Lynch dialoga con i suoi attori, comunicando loro le sensazioni da esprimere che nel film effettivamente ci saranno. Non è poco. A.M.